rito del lavoro

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marco panaro
00sabato 1 aprile 2006 17:12
Cassazione Sezione Lavoro n. 6154 del 20 marzo 2006, Pres. Mercurio, Rel. Vidiri.

Nel rito del lavoro il ricorrente deve – analogamente a quanto stabilito per il giudizio ordinario dal disposto dell’art. 163 n. 4 c.p.c. – indicare ex art. 414 n. 4 c.p.c. nel ricorso introduttivo della lite gli elementi di fatto e di diritto posti a base della domanda, e deve altresì indicare i mezzi probatori a sostegno della sua richiesta, sicchè il convenuto può eccepire, in ogni tempo ed in ogni grado di giudizio, il mancato rispetto da parte dell’attore della norma codicistica sull’onere della prova in quanto la decadenza dalle prove riguarda non solo il convenuto (art. 416, terzo comma, c.p.c.) ma anche l’attore (art. 414 n. 5 c.p.c.), dovendo ambedue le parti, in una situazione di istituzionale parità, esternare sin dall’inizio tutto ciò che attiene alla loro difesa e specificare il materiale posto a base delle reciproche istanze.
marco panaro
00sabato 1 aprile 2006 17:16
Cassazione Sezione Lavoro n. 5813 del 16 marzo 2006, Pres. Mercurio, Rel. Figurelli

L’appellante che impugni in toto la sentenza di primo grado, insistendo per l’accoglimento delle domande proposte (rigettate dal primo Giudice) non ha l’onere di reiterare le istanze istruttorie pertinenti a tali domande e già ritualmente proposte in I grado. Deve infatti ritenersi che la riproposizione in appello delle istanze istruttorie sia insita nella richiesta di accoglimento delle domande formulate con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado
marco panaro
00sabato 8 aprile 2006 18:12
Corte di Appello di Roma, Sezione Lavoro, dispositivo del 21 marzo 2006, Pres. Zecca, Rel. Leone

La Corte d’Appello di Roma, Sezione Lavoro ha applicato per la prima volta una nuova norma, introdotta nel codice di procedura civile, con il decreto legislativo n. 40 del 2006. Si tratta dell’art. 420 bis secondo cui: “Quando per la definizione di una controversia di cui all’articolo 409 è necessario risolvere in via pregiudiziale una questione concernente l’efficacia, la validità o l’interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale, il giudice decide con sentenza tale questione, impartendo distinti provvedimenti per l’ulteriore istruzione o, comunque, per la prosecuzione della causa fissando una successiva udienza in data non anteriore a novanta giorni. La sentenza è impugnabile soltanto con ricorso immediato per cassazione da proporsi entro sessanta giorni dalla comunicazione dell’avviso di deposito della sentenza. Copia del ricorso per cassazione deve, a pena di inammissibilità del ricorso, essere depositata presso la cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza impugnata entro venti giorni dalla notificazione del ricorso alle parti; il processo è sospeso dalla data del deposito.”

La decisione della Corte d’Appello di Roma è stata pronunciata in una controversia fra l’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato e l’impiegato Alessandro F., avente ad oggetto la computabilità, ai fini della determinazione del t.f.r., dei compensi percepiti per lavoro straordinario e del compenso “carta valori”. In seguito all’accoglimento, nel giudizio di primo grado, della domanda proposta dal lavoratore, l’I.P.Z.S. ha proposto appello sostenendo che per il periodo successivo al maggio 1982, la contrattazione collettiva aveva escluso la computabilità dei compensi in questione nel t.f.r..

Sul punto la Corte, all’udienza del 21 marzo 2006 (Pres. Zecca, Rel. Leone) ha pronunciato una “sentenza di interpretazione ex art. 420 bis., 1° comma cod. proc. civ.”, dando lettura del seguente dispositivo: “Decidendo ai sensi del combinato disposto degli artt. 359 e 420 bis 1° comma c.p.c., ritenuta la necessità di risolvere in via pregiudiziale l’interpretazione della contrattazione collettiva applicata tra le parti, così provvede: dichiara che il combinato disposto delle clausole contrattuali applicate tra le parti per le ragioni interpretative di cui in motivazione, deve essere inteso nel senso che il t.f.r. deve essere calcolato con il computo dei compensi percepiti per lavoro straordinario e del compenso “carta valori””.
marco panaro
00sabato 8 aprile 2006 18:16
Cassazione Sezione Lavoro n. 6129 del 20 marzo 2006, Pres. Mercurio, Rel. Di Cerbo

Nelle cause di lavoro, in grado di appello, la costituzione in giudizio dell’appellato avviene mediante una memoria che deve essere depositata dieci giorni prima dell’udienza di discussione. Se l’appellato intende proporre appello incidentale deve inserirlo a pena di decadenza, nella memoria di costituzione e provvedere inoltre alla notifica di questa alla controparte almeno dieci giorni prima dell’udienza fissata per la discussione dell’appello.

La sanzione della decadenza dall’appello incidentale deve intendersi comminata dall’art. 436, comma terzo, cod. proc. civ. nella sola ipotesi di mancato deposito in cancelleria della memoria difensiva dell’appellato, contenente l’appello stesso, entro il termine fissato dalla legge (cioè almeno dieci giorni prima dell’udienza fissata per la discussione), e non anche nel caso di omissione della notificazione della memoria nello stesso termine, e ciò sia per il tenore letterale della disposizione di legge, sia per ragioni di ordine sistematico, quali la brevità del termine assegnato e la conseguente difficoltà di osservarlo per la parte onerata, nonché la necessità di accordare preferenza ad un’interpretazione che escluda ragioni di non ragionevole discriminazione (quanto agli effetti dei vizi o dell’omissione della notificazione dell’atto) della posizione dell’appellante incidentale rispetto a quella delineata, per l’appellante principale, dal diritto vivente. Ne consegue che, in caso di mancata notificazione entro detto termine della memoria di costituzione contenente l’appello incidentale, che risulti, tuttavia, tempestivamente depositata in cancelleria, il giudice deve concedere all’appellante incidentale nuovo termine, perentorio, per la notificazione omessa (o invalida), sempre che la controparte presente all’udienza non vi rinunci esplicitamente, accettando il contraddittorio o limitandosi a chiedere un congruo rinvio.
marco panaro
00mercoledì 24 gennaio 2007 19:37
Cassazione Sezioni Unite Civili n. 118 del 9 gennaio 2007, Pres. Carbone, Rel. Amoroso

In caso di controversie inerenti al rapporto di lavoro del personale italiano – come di quello straniero – operante alle dipendenze di consolati di Stati stranieri in Italia, sussiste il difetto di giurisdizione del giudice italiano, quando la pronuncia a tale giudice richiesta comporti interferenza sull’organizzazione dell’ufficio consolare, sicché deve essere esclusa la giurisdizione del giudice italiano per la domanda volta alla reintegrazione nel posto di lavoro a seguito di impugnativa di licenziamento, investendo detta pretesa in via diretta i poteri organizzativi-sovrani dell’ente straniero; invece – come ha poi puntualizzato Cass. Sez. Un. 27 novembre 2002 n. 16830 – l’immunità giurisdizionale dell’ambasciatore di Stato estero, ai sensi dell’art. 31 della Convezione di Vienna 18 aprile 1961 sulle relazioni diplomatiche (resa esecutiva con la legge 9 agosto 1967, n. 804), non è invocabile con riferimento a controversia di pagamento di somme per differenze retributive relative all’espletamento di mansioni di autista presso l’ambasciata.

Quindi, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo abbandonato la tesi dell’“immunità diffusa” per accogliere, invece, il principio dell’“immunità ristretta o relativa”, che risponde, ormai, al diritto internazionale consuetudinario; pertanto, da una parte si è affermato che, al fine dell’esenzione dalla giurisdizione del giudice nazionale è richiesto che l’esame e l’indagine sulla fondatezza della domanda dei lavoratori non comporti apprezzamenti, indagini o statuizioni che possano incidere o interferire sugli atti o comportamenti dello Stato estero che siano espressione dei suoi poteri sovrani di autorganizzazione, vigendo in tali casi il principio generale par in parem non habet iurisdictionem; d’altra parte però può affermarsi che l’esenzione degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile è limitata agli atti jure imperii (a quelli atti, cioè, attraverso i quali si esplica l’esercizio delle funzioni pubbliche statali) e non si estende invece agli atti iure gestionis o iure privatorum. Analoga distinzione va operata anche con riguardo ai rapporti di lavoro: occorre tener conto non solo della natura delle mansioni in concreto esercitate dal lavoratore, ma anche del tipo di domanda proposta, con la conseguenza di assegnare rilevanza decisiva – ai fini dell’attribuzione della giurisdizione al giudice italiano – alla natura meramente patrimoniale della pretesa esercitata in giudizio dal lavoratore dipendente di uno Stato estero. In base a questo criterio l’esenzione dello Stato straniero dalla giurisdizione nazionale viene meno, quindi, non solo nel caso di controversie relative a rapporti di lavoro aventi per oggetto l’esecuzione di attività meramente ausiliarie delle funzioni istituzionali degli enti convenuti, ma anche nel caso di controversie promosse dai dipendenti allorquando la decisione richiesta al giudice italiano, attenendo ad aspetti solo patrimoniali, sia inidonea ad incidere o ad interferire sulle funzioni dello Stato sovrano; nella specie le mansioni della ricorrente (impiegatizie d’ordine) non toccano l’esercizio di poteri sovrani dello Stato estero ed inoltre la domanda azionata in giudizio ha contenuto esclusivamente patrimoniale, avendo ad oggetto la pretesa di differenze retributive; talché deve affermarsi la giurisdizione del giudice italiano.
marco panaro
00venerdì 2 marzo 2007 19:29
Cassazione Sezione Lavoro n. 3770 del 19 febbraio 2007, Pres. Ianniruberto, Rel. Amoroso
Sia l’interpretazione letterale della norma, sia il canone costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111 secondo comma Cost.) coniugato a quello dell’immediatezza della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.) fanno ritenere che l’art. 420 bis cod. proc. civile trovi applicazione solo nel giudizio di primo grado e non anche in quello di appello.
marco panaro
00venerdì 2 marzo 2007 19:51
Cassazione Sezione Lavoro n. 3916 del 20 febbraio 2007, Pres. De Luca, Rel. Stile
Nel processo del lavoro i documenti offerti come prova devono essere indicati nell’atto introduttivo del giudizio e contestualmente depositati. Il mancato rispetto di tale onere comporta la decadenza del diritto a produrre, in un momento successivo, i documenti salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall’evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione. La tardività dell’esibizione o del deposito dei documenti ad opera dell’attore o del convenuto, essendo i relativi termini stabiliti nell’esclusivo interesse delle parti, può essere eccepita nell’udienza di discussione, ma non può essere rilevata d’ufficio dal giudice.
marco panaro
00venerdì 2 marzo 2007 19:55
Cassazione Sezione Lavoro n. 3926 del 20 febbraio 2007, Pres. Sciarelli, Rel. De Matteis
I compiti del consulente tecnico di parte sono definiti dall’art. 201 cod. proc. civ.: egli assiste alle operazioni del consulente del giudice, partecipa all’udienza ed alla camera di consiglio ogni volta che interviene il consulente del giudice, per chiarire e svolgere, con l’autorizzazione del giudice, le sue osservazioni sui risultati delle indagini tecniche. Il principio di concentrazione che caratterizza il processo del lavoro impone che il ruolo del consulente di parte sia svolto nel corso della consulenza d’ufficio, in contraddittorio ed in ausilio al consulente d’ufficio, e non a posteriori, quasi come un atto di gravame contro le conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio.
marco panaro
00mercoledì 14 marzo 2007 00:43
Cassazione Sezione Lavoro n. 4502 del 27 febbraio 2007, Pres. Mercurio, Rel. Figurelli
Nel processo del lavoro la mancanza di una specifica contestazione, in base all’art. 416 cod. proc. civ., dei conteggi delle somme richieste non sempre comporta ammissione della loro validità. Le operazioni di determinazione del quantum hanno, infatti, un contenuto variabile e complesso, frequentemente comprensivo, più o meno esplicitamente, sia di una maggiore specificazione dei fatti costitutivi e del petitum, sia di una elaborazione contabile, che può essere di ampiezza e complessità assai differenziata, non solo in relazione al numero dei dati coinvolti, ma anche e principalmente per effetto del contenuto di regole giuridiche, legali e contrattuali, alle quali la detta elaborazione dà concreta attuazione. La non contestazione rileva diversamente a seconda dell’aspetto dell’elaborazione contabile cui risulta concretamente riferibile. Se concerne l’interpretazione data alla disciplina legale o contrattuale della quantificazione, essa si colloca in un ambito di sostanziale irrilevanza, appartenendo al potere-dovere del giudice la cognizione di tale disciplina, che non può risultare condizionata dalle prospettazioni difensive e dai comportamenti processuali delle parti. Per avere rilevanza, la non contestazione deve, invece, fondamentalmente riguardare i fatti da accertare nel processo e non la determinazione della loro dimensione giuridica.
marco panaro
00lunedì 16 luglio 2007 14:54
Cassazione Sezione Lavoro n. 14478 del 21 giugno 2007, Pres. De Luca, Rel. Lamorgese
Ove il consulente tecnico di ufficio, nel corso dell’indagine a lui affidata, tenga conto di documenti non ritualmente prodotti in causa dalle parti e senza il loro consenso, e ponga a base del suo parere le risultanze così acquisite, tale attività dà luogo a nullità relativa soggetta al regime dell’art. 157 cod. proc. civ. Tale nullità deve ritenersi sanata se non è fatta valere nella prima istanza o difesa successiva al deposito della relazione peritale.
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