Retratto successorio

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Commissario Maigret
00giovedì 27 novembre 2003 16:52
CASSAZIONE CIVILE 06/09/1994 n° 7666



MASSIMA:

L'art. 732 cod. civ. riconosce ai partecipanti ad una comunione ereditaria due distinti diritti: a) lo "ius prelationis", in base al quale, perdurando il regime di comunione, se uno dei partecipanti ad essa vuole alienare la propria quota a titolo oneroso, deve notificare agli altri la relativa proposta, onde consentire loro di avvalersi della preferenza accordata, si' che non puo' concludere con terzi il contratto traslativo prima del decorso del periodo normativamente previsto; b) lo "ius retractionis", esercitabile dal partecipante nei confronti del terzo acquirente della quota ereditaria, nel caso che sia stato violato il diritto di prelazione o non effettuando la predetta notifica della proposta di alienazione o ignorando l'esercizio positivo di tale diritto.

***

Svolgimento del processo

Elda Gammaraccio, con atto del 9 marzo 1983, citò dinanzi al Tribunale di Chieti Luigi Francescangeli e, premesso di aver acquistato da Angelo Francescangeli i due sesti di un compendio immobiliare appartenente per il resto al convenuto, chiese sciogliersi giudizialmente la comunione dedotta.
Luigi Francescangeli, costituitosi, sulla premessa della natura ereditaria della comunione a suo tempo insorta fra esso convenuto ed il dante causa dell'attrice, accampando di aver tempestivamente esercitato il diritto di prelazione in relazione alla vendita della quota successoria dal predetto posta in essere, si oppose alla domanda, e, in riconvenzione, instò perché venissero dichiarati realizzati in suo favore gli effetti di cui all'art. 732 c.c.
Il tribunale, con sentenza non definitiva del 24 marzo 1989, disattese la domanda riconvenzionale considerata, contestualmente disponendo farsi luogo ad ulteriore trattazione della causa con riguardo all'istanza attorea di scioglimento di comunione.
Su gravame di Luigi Francescangeli, la Corte d'appello di L'Aquila, con sentenza del 28 giugno 1990, resa nel contraddittorio delle parti, accolta l'impugnazione, in riforma della decisione impugnata, sul ritenuto presupposto della natura ereditaria della comunione in controversia, dichiarò di avere l'appellante validamente e tempestivamente esercitato il diritto di prelazione con riferimento alla vendita della propria quota dell'asse ereditario posta in essere dal coerede Angelo Francescangeli, ed intervenuto, perciò, il riscatto da parte dell'appellante medesimo del compendio venduto dal coerede dell'appellata; fece, però, obbligo al predetto di rimborsare a costei il pagato prezzo di acquisto, maggiorato delle spese relative e degli interessi maturati al momento della proposizione della domanda riconvenzionale.
Luigi Francescangeli ricorre, con quattro motivi, per la cassazione della sentenza d'appello considerata, notificatagli il 26 ottobre 1990.
Elda Gammaraccio, cui il ricorso è stato notificato il 21 dicembre 1990, resiste con controricorso del 12 gennaio 1991.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

1) - Luigi Francescangeli, sul dedotto presupposto della propria contitolarità della comunione ereditaria di cui in narrativa, prospettando avere il coerede Angelo Francescangeli venduto a Elda Gammaraccio, estranea alla successione, la sua quota dell'asse comune, e ciò senza tener conto del fatto che egli, nella ricevuta proposta dell'alienazione, aveva esercitato il diritto di prelazione riconosciutogli dall'art. 732, p.p., c.c., ha introdotto una domanda con la quale ha chiesto farsi luogo a declaratoria di inefficacia nei suoi confronti della traslazione come sopra concordata tra i sunnominati Angelo Francescangeli ed Elda Gammaraccio.
La qui impugnata sentenza della Corte d'appello di L'Aquila, avendo ritenuto la domanda considerata intesa a far valere lo ius retractionis riconosciuto dall'art. 732, comma primo, seconda parte, c.c. ad ogni titolare di comunione ereditaria nel caso in cui uno dei coeredi abbia venduto ad estranei la sua quota dell'asse comune in violazione del diritto di prelazione a lui spettante, e, quindi, a riscattare dall'acquirente i cespiti ceduti in violazione delle sue ragioni, ha accolto la pretesa ed ha dichiarato intervenuto in favore dell'attuale ricorrente il riscatto dei beni contesi, ponendo, peraltro, a carico del medesimo l'obbligo di rimborsare a Elda Gammaraccio gli importi da lei erogati a titolo di prezzo dell'acquisto invalidato e di spese all'acquisto stesso relative, con gli interessi a decorrere dal giorno della proposizione dell'istanza accolta.

Luigi Francescangeli, con il primo motivo di ricorso, censura la pronuncia negli esposti termini resa dalla corte territoriale denunciandola inficiata da «violazione e falsa applicazione degli artt. 732 c.c. e 102 e 331 c.p.c.»: in buona sostanza, sulla premessa che, per come riconosciuto dallo stesso giudice del merito, egli avrebbe ritualmente e tempestivamente esercitato il diritto di prelazione sull'asse comune spettantegli nei confronti del coerede e che dall'intervenuto esercizio del diritto in discorso sarebbe automaticamente derivato il trasferimento a sé dei beni in contestazione, deduce che erroneamente la sentenza impugnata avrebbe riscontrato realizzata nella fattispecie un'ipotesi di esercizio del diritto di riscatto, risultando, a suo dire, una siffatta ipotesi ravvisabile solo nel caso di vendita di quota di asse ereditario non preceduta da «notifica» ai coeredi della proposta di alienazione; accampa, quindi, che ingiustificatamente, nel contesto prospettato, sarebbe stato dichiarato il suo obbligo di rimborsare alla attuale controricorrente, insieme al prezzo da lei pagato per l'acquisto invalidamente compiuto, le spese sostenute per tale acquisto e gli interessi legali.
Il Francescangeli, inoltre, con il secondo motivo di ricorso, assume essere la sentenza impugnata viziata da «omessa e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia», nella realtà, allegando che la decisione contestata sarebbe frutto della mancata percezione esatta della diversità fra i due diritti riconosciuti al contitolare di comunione ereditaria dall'art. 732 c.c., e cioè fra il diritto di prelazione, spettante nei confronti dei coeredi, e il diritto, assoluto, al riscatto dei beni venduti, esercitabile nei confronti di ogni acquirente dei beni medesimi, nonché di una assunta inammissibile applicazione congiunta dei due «istituti».

I motivi, da esaminarsi congiuntamente, perché all'evidenza connessi, non sono fondati.
In proposito, giova rilevare che l'asserzione dalla quale prendono le mosse le considerate doglianze va tenuta per senz'altro esatta.
L'art. 732 c.c. di vero, riconosce ai soggetti partecipi di comunioni ereditarie due diritti distinti: innanzi tutto, lo ius prelationis, in virtù del quale hanno diritto di essere preferiti agli estranei quando un altro dei coeredi, nella persistenza del regime comunistico, intenda vendere la sua quota, corrispondendo a tale diritto l'obbligo di ciascuno dei comunisti di significare agli altri, prima di vendere, la proposta di alienazione e di attendere il decorso dello spatium deliberandi accordato dalla legge agli oblati prima di addivenire al perfezionamento della progettata operazione traslativa; in secondo luogo, lo ius retractionis, di natura assoluta, esercitabile nei confronti di ogni acquirente dei beni cui, nella persistenza della comunione, questi siano stati trasferiti, onerosamente, in violazione del diritto di prelazione di cui sopra.
Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, però è da ritenere che lo ius retractionis sia, di massima esercitabile, oltre che nel caso di vendita di beni comuni realizzata dal coerede senza la previa significazione della proposta di vendita agli altri comunisti, in ogni ipotesi di alienazione che si riveli posta in essere senza il rispetto dello ius prelationis, e, quindi, in particolare, anche quando, come è avvenuto nella fattispecie, il coerede abbia, comunque, venduto ad estranei la sua quota dei beni comuni senza tener conto del già intervenuto esercizio del diritto di prelazione da parte degli altri comunisti: anche in tale ipotesi, di fatti, deve essere riconosciuto al comunista che abbia subito la lesione delle sue ragioni il diritto di ottenere il recupero, per il prezzo degli altri pagato, dei beni illegittimamente sottratti al regime comunistico.

Orbene, nel giudizio in argomento, Luigi Francescangeli risulta aver proposto una domanda con la quale, sull'allegato presupposto che Angelo Francescangeli, partecipe insieme a lui della comunione ereditaria in controversia, ebbe a vendere la sua quota di questa a Elda Gammaraccio senza tener conto del fatto che egli aveva esercitato lo ius prelationis con riguardo ai cespiti venduti, ha chiesto contro la Gammaraccio dichiarazione di inefficacia nei suoi confronti dell'acquisto dalla predetta realizzato e di trasferimento ad esso istante del dominio dei beni contesi.
L'azione considerata, in quanto proposta, non nei riguardi del coerede alienante, unico obbligato rispetto al diritto di prelazione, ma, contro l'acquirente dei beni ereditari venduti ed avente, perciò, manifestamente, l'obiettivo di ottenere il recupero della disponibilità di detti beni, si rivela funzionalmente diretta a conseguire la tutela e la realizzazione dello ius retractionis.
La pronuncia della corte territoriale in ordine alla qualificazione della domanda in esame ed alla riferibilità di essa al diritto di riscatto, pertanto, appare corretta e resiste alle critiche mossele con i qui delibati mezzi di ricorso.
Ogni ulteriore questione sollevata dal ricorrente con la memoria depositata ai sensi dell'art. 378 del codice di rito ed in sede di discussione circa i profili della causa ai quali attengono i motivi considerati, ed in particolare, la problematica relativa all'incidenza del possesso dei beni venduti durante le more della lite sulla debenza dei contestati interessi, rivelandosi intesa ad estendere il thema decidendum oltre i limiti fissati con il ricorso, deve essere ritenuta inammissibile.

2) - Il presente giudizio è stato istituito da Elda Gammaraccio con la proposizione di una domanda tesa ad ottenere lo scioglimento della comunione, di cui in narrativa ed al paragrafo precedente, assunta costituita fra Luigi Francescangeli ed essa istante a seguito del da lei realizzato acquisto della quota di beni comuni originariamente appartenuta ad Angelo Francescangeli.
Luigi Francescangeli, alla sua volta, ha riconvenzionalmente introdotto nella causa come sopra ex adverso promossa la domanda intesa ad ottenere il retratto dei beni in contestazione della quale ci si è occupati dianzi.
Il Tribunale di Chieti, con la sentenza del 24 marzo 1989, ha reso nel primo grado del giudizio una pronuncia non definitiva, con la quale, a mente dell'art. 277, secondo comma, c.p.c., ha statuito, rigettandola, solo sulla domanda riconvenzionale del Francescangeli, mentre, con separata, contestuale ordinanza, ha disposto farsi luogo ad ulteriore trattazione della causa con riguardo alla domanda principale di divisione azionata dalla Gammaraccio.
Sull'immediato gravame dell'attuale ricorrente avverso la suddetta sentenza non definitiva, la Corte d'appello di L'Aquila, con la decisione qui impugnata, ha riformato la pronuncia del primo giudice ed ha come sopra dichiarato legittimamente esercitato da Luigi Francescangeli lo ius retractionis.
Il Francescangeli, con il terzo motivo di ricorso, accampa rivelarsi la pronuncia della corte territoriale viziata da «violazione dell'art. 112 c.p.c.», per avere detta corte omesso di statuire in ordine alla sua richiesta tesa ad ottenere declaratoria di rigetto dell'avversa istanza di divisione, richiesta il cui accoglimento, a suo dire, sarebbe stato dovuto nell'intervenuto riconoscimento della bontà delle sue ragioni di cui sub 1).
Il motivo è destituito di fondamento.

Ed invero, nell'ipotesi, ricorrente nella fattispecie, di impugnazione di sentenza non definitiva, il giudice dell'appello deve, per il principio del doppio grado di giurisdizione, limitare il proprio esame alla materia che ha formato oggetto della decisione di primo grado e non può estenderlo alle questioni ed ai profili della causa per i quali vi sia stata riserva di tale decisione, attesa la propria incompetenza funzionale al riguardo (cfr., in tal senso, ex multis, Cass. Sez. lav., n. 2435 del 12 aprile 1985, idem Sez. I civ., n. 595 del 18 gennaio 1992).
Nel caso in esame, avendo il tribunale pronunciato in prime cure, con sentenza non definitiva, solo sulla domanda di Luigi Francescangeli volta a far valere il retratto successorio, ed essendosi detto giudice riservato di statuire, all'esito della disposta più approfondita istruzione, sull'istanza di divisione azionata da Elda Gammaraccio, alla stregua del principio testé enunciato, deve escludersi che la Corte di appello, investita dell'impugnazione della sentenza non definitiva, potesse deliberare la domanda su cui il primo giudice si era riservato la pronuncia e che la sentenza resa da detta corte possa essere ravvisata viziata per il fatto di non aver esaminato tale domanda.

3) - La sentenza impugnata, dopo aver accolto l'appello proposto da Luigi Francescangeli avverso la ripetuta decisione non definitiva del Tribunale di Chieti ed aver pronunciato nei termini dianzi illustrati sul merito delle domande azionate dall'appellante, ha compensato fra le parti le spese del giudizio di secondo grado, considerando suggerito un siffatto regolamento delle spese dall'«esito del giudizio», dalla circostanza che l'appellante non aveva versato alla controparte il corrispettivo del conseguito retratto, nonché del dato che, in definitiva, la soccombenza dell'appellata si rivelava correlabile a fatto, non di lei ma, di Angelo Francescangeli, estraneo al processo.
Luigi Francescangeli, con il quarto ed ultimo motivo di ricorso, deduce essere la pronuncia della corte territoriale sul tema, viziata da «violazione dell'art. 92 c.p.c. e da contraddittoria motivazione», non ricorrendo, a suo dire, nel caso in esame ragioni per compensare le spese processuali, avuto riguardo alla ingiustificata resistenza della controparte alle sue pretese ed alla inesistenza di ogni suo obbligo di versare una qualsiasi somma in relazione all'esercizio dei diritti di cui all'art. 732 c.c. antecedentemente alla sentenza contestata.
Il motivo non ha pregio.
La decisione del giudice del merito sul regolamento delle spese processuali può essere sindacata in cassazione sotto il profilo di cui all'art. 360, comma primo n. 3, c.p.c., e cioè per violazione o falsa applicazione di norme del diritto, solo quando abbia comportato condanna nelle spese della parte totalmente vittoriosa sul merito della lite, e sotto il profilo di cui all'art. 360, comma primo n. 5, del codice di rito, e cioè per difetto di motivazione, allorché si riveli positivamente motivata in termini incongrui o inadeguati.
Nella fattispecie, in cui nella disposta compensazione delle spese è senz'altro da escludere la ravvisabilità del primo dei due cennati ordini di vizi, la motivazione della decisione contestata appare sufficientemente e non contraddittoriamente ancorata al rilievo dell'incolpevolezza della soccombenza dell'attuale ricorrente, e, perciò, va esclusa la riscontrabilità anche del dedotto vizio di cui al ripetuto art. 360, comma primo n. 5, c.p.c.

4) - Conclusivamente, il ricorso, nella infondatezza dei suoi motivi, va rigettato.

5) - Le spese seguono la soccombenza e, perciò, nella liquidazione di cui al dispositivo, vengono poste a carico del ricorrente.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente nelle spese, che liquida in lire 169.700, oltre lire 3.500.000 di onorari.




Commissario Maigret
00giovedì 27 novembre 2003 16:53
CASSAZIONE CIVILE 12/05/1999 n° 4703

MASSIME:

I)
Il negozio con il quale il coerede, che abbia alienato la propria quota ereditaria ed il terzo acquirente della quota dichiarino la nullita' o l'originaria inefficacia del negozio tra loro intervenuto, puo' essere idoneo a reintegrare "ex tunc" e con effetti reali detto coerede nella comunione ereditaria e, quindi, a determinare il sopravvenuto difetto della condizione dell'azione di riscatto di quella quota, che sia stata in precedenza esperita da altro coerede a norma dell'art. 732, solo quando risulti che il negozio medesimo abbia portata ricognitiva di una causa di nullita' od originaria inefficacia dell'indicato contratto traslativo stabilito tassativamente dalla legge, in quanto, in caso contrario, essa opera esclusivamente tra le parti contraenti e non e' opponibile a soggetti diversi, quale il coerede che agisca in retratto successorio.
II)
L'utile esercizio del retratto successorio, comportando la surrogazione legale del retrattante nella stessa posizione del retrattato e con efficacia "ex tunc", vale a dire dalla data della conclusione del contratto, in modo che il primo sia considerato diretto acquirente rispetto al coerede alienante, fa si che tutte le eventuali successive alienazioni della stessa quota perdono "ipso iure" la loro efficacia, indipendentemente dalla trascrizione del primo atto dispositivo della quota o dalla priorita' dell'eventuale trascrizione dei successivi atti di trasferimento.

***

MOTIVI DELLA DECISIONE

Dei due ricorsi proposti dal Palumbo e dalla Ventura Antonia, entrambi destinatari dell'azione di retratto successorio, è stato notificato per primo quello del Palumbo, che, pertanto, va formalmente considerato come ricorso principale, mentre quello della Ventura va ritenuto ricorso incidentale.
Col primo motivo il ricorrente principale Palumbo censura l'impugnata sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 732, 1322, 2644, 2650 e 2657 c.c. nonché per insufficienza e contraddittorietà della motivazione circa un punto decisivo della controversia.

All'uopo, il ricorrente adduce:

a) il retratto successorio non può essere esercitato, perché privo del suo essenziale presupposto, quando il negozio giuridico in virtù del quale la quota ereditaria indivisa fu alienata a favore di un estraneo all'eredità sia stato posto nel nulla per qualsiasi motivo di diritto o per volontà delle parti; ciò si è verificato nel caso in esame, poiché, con la scrittura privata autenticata del 28 aprile 1987, i fratelli Ventura, tramite il loro procuratore Palumbo, alienarono la stessa quota a favore della Ventura Antonia, così mostrando di non voler l'effetto traslativo prodotto dal primo contratto, che, pertanto, veniva posto nel nulla, risoluto tacitamente o esplicitamente sostituito; invece la Corte d'Appello, ignorando la volontà delle parti, che erano libere di determinare il contenuto del contratto, ha ritenuto valido un contratto che, efficace solo tra le parti, era stato posto nel nulla dalle stesse parti;

b) la decisione della corte di merito si pone in contrasto col principio della continuità delle trascrizioni e col principio secondo cui a tutti i coeredi è consentito esercitare il retratto successorio, avendo privato di tale diritto la coerede Ventura Antonia, che lo aveva esercitato mediante l'acquisto della quota ereditaria direttamente dai fratelli Ventura;

c) i terzi Musicco non avevano alcun interesse a far valere l'efficacia di un contratto - quello del 5 novembre 1986 - che, non essendo stato trascritto, non ledeva il loro diritto di prelazione; tale interesse poteva sorgere solo con la trascrizione dell'atto, che, pur avendo indubitabilmente solo effetto dichiarativo, regola i conflitti tra i terzi e non si contrappone, anzi si aggiunge, all'effetto costitutivo, che regola i conflitti tra le parti contraenti; non va, peraltro, trascurato che alcuna conseguenza, per effetto dell'accoglimento del retratto, sarebbe potuto derivare alla Ventura Antonia, che non era intervenuta alla conclusione del primo contratto;

d) la trascrizione dell'atto di acquisto della Ventura Antonia, essendo stata operata prima che fosse trascritto il precedente atto di vendita a favore del Palumbo, prevaleva su quest'ultimo ai sensi dell'art. 2544 c.c., sicché, anche se sul piano dialettico volesse ritenersi che i fratelli Ventura vendettero due volte, a soggetti diversi, la stessa quota, si dovrebbe riconoscere la prevalenza del secondo acquisto, in virtù dell'operata trascrizione;

e) ordinando la sostituzione di un soggetto ad altro nell'acquisto della quota, in base ad una scrittura privata non eseguita, superata da successivo atto pubblico, non trascritta e non dichiarata autografa nelle sottoscrizioni, la corte barese ha altresì violata la norma posta dall'art. 2657 c.c., secondo cui la trascrizione non può essere eseguita se non in forza di sentenza, di atto pubblico o di scrittura privata autenticata.

Le varie censure in cui si articola il motivo risultano, tutte, prive di fondamento.
Alcun elemento, in primo luogo, autorizza a ritenere che, col secondo contratto di compravendita - quello del 28 aprile 1987 - i coeredi Ventura abbiano inteso "porre nel nulla, risolvere tacitamente o esplicitamente sostituire" quello concluso il 5 novembre 1986 col Palumbo.
L'unica ragione che, al riguardo, adduce il ricorrente è costituita dal fatto che, dopo aver alienata la quota a favore del Palumbo, estraneo all'eredità, i fratelli Ventura alienarono la stessa quota a favore della coerede Ventura Antonia, ma tale circostanza, non solo non è idonea a ritenere che il primo contratto sia stato annullato, risolto o sostituito, come assume il ricorrente, ma si rivela altresì inidoneo a far venire meno il presupposto richiesto dall'art. 732 c.c. per l'esercizio del retratto successorio, presupposto costituito dall'alienazione della quota a favore di un estraneo all'eredità.

Perché tale presupposto venga meno non è sufficiente che la quota, alienata a favore di estraneo all'eredità, pervenga, ad opera degli stessi alienanti, ad altro coerede, perché, a prescindere dal rilievo che la prima alienazione, se, come nel caso in esame, valida ed efficace, rende invalida la seconda alienazione, non potendo gli stessi alienanti, già spogliatisi della proprietà della loro quota, trasferire la stessa quota a terzi, è comunque, necessario che il primo trasferimento sia nullo di per sé, non già che ne siano stati dagli alienanti vanificati gli effetti.
Per vero, questa Suprema Corte ha avuto modo di affermare che "il negozio col quale il coerede, che abbia alienato la propria quota ereditaria ed il terzo acquirente della quota ereditaria dichiarino la nullità o l'originaria inefficacia del negozio traslativo tra di loro intervenuto, può essere idoneo a reintegrare ex tunc e con effetti reali detto coerede nella comunione ereditaria e, quindi, a determinare il sopravvenuto difetto della condizione dell'azione di riscatto di quella quota, che sia stata in precedenza esperita da altro coerede a norma dell'art. 732, solo quando risulti che il negozio medesimo abbia portata ricognitiva di una causa di nullità od originaria inefficacia dell'indicato contratto traslativo stabilito tassativamente dalla legge, in quanto, in caso contrario, essa opera esclusivamente tra le parti contraenti, e non è opponibile a soggetti diversi, quale il coerede che agisca in retratto successorio".
Infondate sono, del pari, le censure che fanno leva sulla forma del contratto concluso il 5 novembre 1986 e sulla mancata trascrizione di esso.

E' appena il caso di osservare che il verificarsi dell'effetto traslativo di un contratto avente ad oggetto beni immobili può derivare anche da una scrittura privata, ancorché non autenticata nelle sottoscrizioni, quando, come nel caso in esame, non si contesti dalle parti l'autenticità delle rispettive sottoscrizioni.
Quanto, poi, al difetto della trascrizione, correttamente esso è stato ritenuto irrilevante dal giudice di secondo grado, atteso che la trascrizione, nei trasferimenti immobiliari, adempie esclusivamente ad una funzione dichiarativa e non anche costitutiva, come del resto riconosce lo stesso ricorrente poiché l'effetto traslativo si verifica in virtù della sola manifestazione del consenso e dell'adozione della forma scritta.
Peraltro, come esattamente osservano i controricorrenti, poiché l'utile esercizio del retratto successorio ha efficacia erga omnes , comportando la surrogazione legale del retraente nella stessa posizione del retrattato e con efficacia ex tunc , vale a dire dalla data della conclusione del contratto, in modo che il primo sia considerato diretto acquirente rispetto al coerede alienante, tutte le eventuali successive alienazioni della stessa quota perdono ipso iure la loro efficacia, indipendentemente dalla trascrizione del primo atto dispositivo della quota o dalla priorità dell'eventuale trascrizione dei successivi atti di trasferimento.
La mancata trascrizione dell'atto del 6 novembre 1986 sarebbe potuta venire in rilievo solo in caso di conflitto tra i due acquirenti della stessa quota, il che non si verifica nel caso in esame, che è, invece, caratterizzato da un conflitto tra i coeredi Musicco, non alienanti, da una parte, ed i coeredi Ventura, alienanti, il Palumbo, primo acquirente, e la Ventura Antonia, successiva avente causa, dall'altra.

Le considerazioni che precedono, in particolare quella che rimarca l'effetto costitutivo del contratto, indipendentemente dall'adempimento dell'onere della trascrizione, evidenziano, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, l'interesse dei fratelli Musicco ad attaccare con l'azione di riscatto la vendita del 5 novembre 1986, ancorché non trascritta.
E', infine, evidente che, una volta ritenuta la validità e la perdurante efficacia di detta vendita, ad onta della seconda vendita, i fratelli Musicco fossero legittimati ad agire per il riscatto della quota nei confronti dell'acquirente estraneo Palumbo, con la conseguente inefficacia del successivo atto di alienazione, nonostante che questo fosse stato realizzato a favore di un coerede - la Ventura Antonia -, tale effetto derivando, come si è detto, ipso iure dall'accoglimento del retratto e dall'operare di esso con efficacia erga omnes . E', dunque, irrilevante che tale effetto si verifichi in danno di un coerede, non potendosi ritenere, come sostiene il ricorrente, che il suo operare privi il coerede sub-acquirente del diritto, anche a lui spettante, di esercitare la prelazione.

Col secondo mezzo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 1362 c.c., adducendo che una complessiva valutazione della scrittura privata del 5 novembre 1986, della procura a vendere contestualmente rilasciata dai coeredi Ventura al Palumbo e dell'atto del 27 aprile 1987 avrebbe dovuto condurre a ritenere che non fu il Palumbo a vendere alla Ventura Antonia, ma che la seconda vendita fu eseguita dagli stessi coeredi Ventura a mezzo del loro procuratore Palumbo.
Aggiunge il ricorrente che a dimostrare che il primo atto non produsse effetto traslativo a suo favore sta il rilievo, trascurato dalla Corte d'Appello, che il prezzo, non corrisposto dal Palumbo, fu versato ai venditori dalla Ventura Antonia.
La censura si rivela, in primo luogo inammissibile, poiché l'interpretazione che il ricorrente dà dell'operazione realizzata dalle parti contrasta con l'interpretazione datane dalla corte di merito con giudizio di fatto sufficiente e correttamente motivato.
Comunque, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, l'interpretazione che la Corte d'Appello ha fatto degli atti posti in essere dalle parti non può essere qualificata come atomistica, poiché essa, partita correttamente dall'esame letterale della scrittura privata del 5 novembre 1986, passa ad esaminarne il significato alla luce anche della procura in rem propriam contestualmente rilasciata al Palumbo dai venditori nonché della nota racc. del 24 novembre 1986, con la quale il Palumbo, unitamente alla madre Ventura Antonia, chiedeva ai fratelli Musicco la divisione ereditaria.
La completezza dell'esame interpretativo condotto dal giudice d'appello e la logicità della conclusione trattane, secondo cui la scrittura privata del 5 novembre 1986 ebbe effetto traslativo a favore del Palumbo, sono rese evidenti da una sequenza logica stringente, fondata, in primo luogo, sul rilievo che, essendo mancata la electio amici che il Palumbo si era riservato di operare, il contratto produsse effetti a favore del contraente Palumbo, indi sul rilascio della procura anche in rem propriam , cui le parti si erano obbligate con la stessa scrittura privata del 5 novembre 1986, essendo evidente che tale natura della procura confermava che le parti con la vendita del 05 novembre 1986 vollero che l'effetto traslativo si verificasse a favore del Palumbo, ed, infine, sul chiaro significato della nota datata 24 novembre 1986, essendo pure evidente che la richiesta di divisione dell'asse ereditario presupponeva il convincimento, da parte del Palumbo, di avere acquisita la disponibilità della quota ereditaria.

Quanto, poi, all'omesso esame della circostanza relativa al versamento del prezzo, va, in primo luogo, osservato che la logicità delle conclusioni cui è pervenuta la corte di merito non resterebbe scalfita dall'eventuale accertamento del mancato versamento del prezzo da parte del Palumbo, poiché l'effetto costitutivo della vendita prescinde dall'adempimento dell'obbligazione di versare il prezzo, la cui violazione attribuisce all'alienante solo il diritto di chiedere la risoluzione del contratto per inadempimento; in secondo luogo, comunque, come hanno esattamente rilevato i controricorrenti, il ricorrente deduce inammissibilmente, al riguardo, un fatto nuovo, poiché la Ventura Antonia attribuì al contratto del 5 novembre 1986 "valore di quietanza del prezzo che Palumbo aveva versato".
Col terzo motivo il ricorrente lamenta violazione degli artt. 1208, 1209 e 1214 c.c. nonché degli artt. 100 e 112 c.p.c., rilevando che la Corte d'Appello è incorsa in vizio di ultrapetizione, avendo disposto la sostituzione dei retraenti fratelli Musicco nell'intero contratto concluso dal Palombo, non avvedendosi che, mentre la domanda era limitata alla sola successione di Ventura Emanuele, col contratto erano stati alienati anche i diritti relativi alla successione di Ventura Vincenzo, e, peraltro, il prezzo pattuito era unico per entrambe le quote.
La censura è inammissibile, poiché la questione non risulta essere stata portata alla cognizione della Corte d'Appello.

Essa è, comunque, infondata, poiché la decisione impugnata è ovviamente limitata al riconoscimento di quanto devoluto alla cognizione dei giudici di merito, vale a dire al retratto successorio avente ad oggetto la quota dei beni trasmessi in eredità da Ventura Emanuele, della quale soltanto si era discusso nel corso del giudizio. E, pertanto, il prezzo da corrispondere sarà quello corrispondente alla vendita di tale quota.
Va, ora, esaminato il ricorso della Ventura Antonia, che, per quello che si è detto, va formalmente considerato come ricorso incidentale.
Col primo mezzo la ricorrente censura l'impugnata sentenza per omessa motivazione su di un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti nonché per violazione e falsa applicazione degli artt. 165 e 166 c.p.c, adducendo che, nonostante l'apposita censura sollevata in grado d'appello, la corte di merito ha omesso del tutto di motivare sul rilievo che la seconda causa - quella instaurata dai fratelli Musicco nei confronti di essa ricorrente, non citata nel primo giudizio - non fu iscritta a ruolo, con la conseguenza che la seconda causa non è esistita e che inesistente deve altresì ritenersi la sentenza resa.
La censura è inammissibile, perché sul punto si è formato il giudicato interno.

Per vero, nonostante che la chiamata in causa della Ventura Antonia fosse stata ritenuta corretta dal Tribunale, la ricorrente non formulò alcuna censura al riguardo con l'atto di appello.
Né potrebbe obbiettarsi che la questione, così come prospettata dalla ricorrente, è questione rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, poiché la regola della sottrazione alla disponibilità delle parti delle questioni rilevabili d'ufficio dev'essere coordinata col principio della preclusione derivante dal giudicato interno (cfr. Cass., 4 gennaio 1995, n. 72).

Col secondo motivo la ricorrente denuncia omessa motivazione su di un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti, nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 102 c.p.c. e 732 c.c., rilevando che la domanda proposta col secondo atto di citazione nei confronti di essa ricorrente era una domanda di retratto successorio e, pertanto, non poteva essere notificata solo all'acquirente, perché il relativo giudizio aveva come litisconsorti necessari i venditori.
La censura va disattesa, perché, dovendosi ritenere, per effetto del giudicato interno formatosi sul punto (v. 1° motivo), che il secondo atto di citazione non diede vita ad un autonomo giudizio, costituendo, esso, un atto di chiamata in causa del terzo Ventura Antonia nel giudizio già instauratosi per effetto della notificazione del primo atto di citazione, si deve dedurre che al giudizio presero parte anche i coeredi Ventura ed il Palumbo.

Col terzo motivo la ricorrente si duole di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia nonché di violazione di legge per omessa verifica di presupposti dell'azione di riscatto ex art. 732 c.c., adducendo che la corte di merito non ha considerato che: a) l'atto del 05 novembre 1986 è solo una scrittura privata non trascritta e mai eseguita, essendo stata superata dal successivo atto del 28 aprile 1987;
b) il secondo atto è costituito da una scrittura privata autenticata e regolarmente trascritta;
c) in esso il Palumbo non figura come venditore, bensì come procuratore dei fratelli Ventura, effettivi venditori, con la conseguenza che costoro posero in essere due vendite una prima a favore del Palumbo, nulla o annullata o non valida, una seconda a favore della Ventura Antonia, valida e trascritta.

Ad avviso della ricorrente, la scrittura privata del 5 novembre 1986 conteneva solo un contratto preliminare di vendita, peraltro di data non certa, posto nel nulla dalla successiva vendita a favore di essa ricorrente. Peraltro, accogliendo la domanda, la Corte d'Appello ha disposto nei soli confronti di essa ricorrente, trascurando i venditori Ventura, anche per la ragione che essi non erano stati convenuti in giudizio.
La complessa censura va rigettata per le stesse ragioni esposte nel corso dell'esame del ricorso proposto dal Palumbo in ordine all'effetto traslativo a favore del Palumbo prodotto dalla scrittura privata del 5 novembre 1986, all'infondatezza della questione della nullità od annullamento di tale atto per effetto del successivo atto del 28 aprile 1987, all'irrilevanza della forma curata e dell'omissione della trascrizione dell'atto del 5 novembre 1986, all'invalidità del secondo atto di alienazione in considerazione del fatto che i coeredi Ventura si erano già spogliati della proprietà della quota, alienandola validamente al Palumbo, alla natura della procura rilasciata dai coeredi Ventura al Palumbo.
Va solo aggiunto, in ordine alla questione della natura, se di contratto preliminare di vendita o di contratto di definitivo di vendita, del primo atto, che la Corte d'Appello ha motivato sufficientemente, pervenendo alla conclusione che si trattò di vendita definitiva, e la motivazione, correttamente condotta attraverso l'esame dell'intestazione dell'atto, delle espressioni usate dalle parti e della loro effettiva volontà, essendo priva di vizi logici e giuridici, è incensurabile in questa sede.

Da ultimo, risulta evidente che nei confronti dei coeredi Ventura la corte di merito ha disposto sostituendo nel primo contratto al Palumbo i retraenti. Non doveva, invece, disporre nei loro confronti dichiarando l'inefficacia del secondo atto - quello di alienazione a favore della ricorrente Ventura Antonia - dal momento che l'inefficacia di tale atto costituiva una conseguenza dell'utile esercizio del retratto con riferimento al primo atto, attesa l'efficacia erga omnes dell'accoglimento della domanda di retratto.

Col quarto mezzo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 732 c.c., osservando che, poiché essa ricorrente è coerede e, quindi, ha diritto alla prelazione ed al riscatto, la Corte d'Appello, disponendo l'accoglimento della domanda nei suoi confronti, ha finito col negarle tale diritto.
Osserva il Collegio che la censura è identica a quella proposta dal ricorrente principale Palumbo col primo motivo, sub b), sicché al riguardo valgono le considerazioni svolte a confutazione di quella censura.

Col quinto motivo si lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 732 c.c., osservando che: a) i fratelli Ventura, venditori, non erano proprietari dell'intera quota, di questa essendo comproprietari Cavalli Ada, ved. Ventura, Ventura Giovanni, Ventura Giuseppe, Raffaini Gemma, ved. Ventura, Ventura Paola, Ventura Antonio e Ventura Angela Maria, sicché il retratto fu esercitato solo su una parte della quota - quella spettante ai venditori - con la conseguenza che andava specificata la parte della quota oggetto della domanda; b) poiché i fratelli Ventura avevano ereditato i beni relitti, non solo da Ventura Emanuele, ma anche da Ventura Vincenzo, il retratto andava esercitato anche con riferimento alla quota dell'eredità del Ventura Vincenzo.
Entrambe le censure su cui si articola il motivo sono inammissibili, non risultando che esse siano state portate alla cognizione del giudice d'appello.

Comunque, in ordine alla questione della doppia eredità, - quella del Ventura Emanuele e quella del Ventura Vincenzo - valga quanto si è avuto modo di osservare esaminando il terzo motivo del ricorso Palumbo, che poneva la stessa censura.
Ugualmente non risulta decisiva la questione relativa alla contitolarità della quota di eredità di Ventura Emanuele, avendo i Musicco agito ex art. 732 c.c. nei confronti dei Ventura per la parte di quota di loro pertinenza, ceduta al Palumbo.

Col sesto mezzo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 732 c.c., rilevandosi che la ricorrente acquistò la quota non dal Palumbo ma dai fratelli Ventura e, peraltro, prima che acquistasse il Palumbo, perché l'atto del 5 novembre 1986 non era stato trascritto. E, poiché la Ventura Antonia è coerede, il retratto non poteva essere esercitato nei suoi confronti.
Anche per questa censura valgano le considerazioni già svolte esaminando l'analoga censura formulata dal Palumbo col primo motivo del suo ricorso.
Riassumendo quanto si è detto esaminando quel motivo, può ritenersi che la tesi sostenuta dalla Ventura Antonia sia insostenibile, poiché con l'atto del 5 novembre 1986 i Ventura si erano già privati della loro quota a favore del Palumbo, il quale, quindi, non poteva assumere la veste di procuratore dei coeredi Ventura per una vendita - a favore della Ventura Antonia - che era già avvenuta a suo favore.

Essendo nulla la seconda vendita, in quanto era invalida la procura in base alla quale il Palumbo agiva, diviene irrilevante ogni considerazione legata alla mancata trascrizione della prima vendita ed alla qualità di coerede della Ventura Antonia.
Col settimo motivo si censura l'impugnata sentenza per violazione e falsa applicazione dell'art. 732 c.c. nonché per omessa motivazione su di un punto decisivo della controversia, adducendosi che la procura a vendere fu rilasciata al Palumbo perché questi potesse vendere alla madre Ventura Antonia, impossibilitata a recarsi a Parma a causa della sua età avanzata.
Tale considerazione, ad avviso della ricorrente, rende comprensibile e logica l'intera operazione realizzata dalle parti, anche perché il prezzo fu versato da essa ricorrente dopo la conclusione dell'atto del 5 novembre 1986.
Inoltre, la ricorrente ravvisa contraddittorietà nella motivazione, laddove, da un canto, ritiene definitiva la vendita a favore del Palumbo, dall'altro considera la procura a vendere resa a favore del Palumbo come circostanza confermativa di tale tesi, mentre, in realtà, di essa non vi sarebbe stato bisogno se l'atto del 5 novembre 1986 avesse prodotto effetti traslativi a favore del Palumbo.
La censura è, in parte, inammissibile, in parte priva di fondamento.

Il rilievo di inammissibilità si fonda nella considerazione che la ricorrente chiama questa Suprema Corte a svolgere una indagine di fatto, non consentita in sede di legittimità, sul contenuto e sulla natura dell'atto del 05 novembre 1986 nonché sul versamento del prezzo.
Comunque, la Corte d'Appello non è incorsa nel vizio di omessa motivazione con riferimento alla questione della natura e degli effetti del primo atto, avendo, con giudizio di fatto insindacabile in questa sede, ritenuto trattarsi di vendita definitiva della quota ereditaria, con conseguente irrilevanza della procura a vendere contestualmente rilasciata al Palumbo dagli stessi venditori.
Quella del mandato in rem propriam costituisce un'argomentazione aggiuntiva, che nulla toglie alla correttezza del ragionamento della corte di merito, essenzialmente incentrato sull'effetto traslativo del primo atto.
D'altro canto, la non decisività del ragionamento svolto dalla ricorrente e la natura di indagine di fatto dell'interpretazione da essa proposta risultano evidenti solo se si consideri che, se i fratelli Ventura avevano inteso ab initio alienare la quota a favore della coerede Ventura Antonia, ben avrebbero potuto farlo direttamente, invitando il Palumbo a munirsi di procura speciale resagli dalla madre.

Con l'ottavo motivo si denuncia violazione dell'art. 112 c.p.c. nonché contraddittorietà nella motivazione su di un punto decisivo della controversia, evidenziandosi, in primo luogo, la contraddizione in cui è caduta la Corte di Appello, che, da un canto, ha escluso che fosse stata proposta domanda di accertamento della simulazione dell'atto di vendita dell' 8 aprile 1987, dall'altro, ritenendo che a vendere la quota alla ricorrente fosse stato effettivamente il Palumbo, che tuttavia in quell'atto aveva agito nella veste di procuratore dei fratelli Ventura, ha implicitamente ritenuto simulato l'atto.
Peraltro, si precisa dalla ricorrente, ciò il giudice d'appello ha ritenuto senza che fosse stata proposta la domanda di simulazione da alcuna delle parti.
La censura è priva di pregio.
Non vi è contraddizione né vizio di ultrapetizione nella sentenza impugnata, in quanto la corte distrettuale ha giudicato correttamente sulla domanda di retratto successorio, limitandosi ad osservare che, attese le risultanze del contratto del 5 novembre 1986, immediatamente traslativo della proprietà della quota ereditaria a favore del Palumbo, la successiva vendita del 28 aprile 1987 a favore della Ventura Antonia non poteva avere effetto nei confronti dei fratelli Musicco, retraenti.

E', poi, evidente l'equivoco in cui cade la ricorrente, che confonde la questione della simulazione assoluta della vendita operata a suo favore, ritenuta infondata dal giudice d'appello, con quella della eventuale simulazione relativa di essa, con riferimento alla parte che assunse la veste di alienante.
Ma tale questione è evidentemente priva del necessario carattere della decisività, perché, se, come risulta dall'atto, la seconda vendita fu realizzata anche dai fratelli Ventura, a mezzo del loro procuratore speciale Ventura, essa era nulla, attesa la già evidenziata invalidità della procura, rilasciata da una parte che già si era spogliata della titolarità della quota per effetto della prima vendita; se, invece, la seconda vendita fu realizzata dal Palumbo come effettivo venditore, essa è comunque divenuta inefficace di sensi dell'art. 732 c.c., per effetto dell'utile esercizio dell'azione di retratto nei confronti della prima alienazione, realizzata a favore di un estraneo all'eredità.

Col nono ed ultimo mezzo la ricorrente lamenta ancora violazione dell'art. 732 c.c. e contraddittorietà della motivazione su di un punto decisivo della controversia, adducendo che la corte di merito non ha fornito alcuna logica motivazione della propria decisione, omettendo di considerare che: a) le vendite sono due, entrambe operate dai germani Ventura, che vendettero, in un primo tempo, al Palumbo, in un secondo tempo ad essa ricorrente; b) la prima vendita fu posta nel nulla dalla seconda; c) il Palumbo, non avendo acquistata la proprietà della quota, anche perché la trascrizione ha effetto costitutivo, non poté vendere alcunché alla madre; d) il Palumbo intervenne nell'atto del 28 aprile 1987 quale procuratore dei germani Ventura.
La censura è priva di pregio.

Vanno qui ribadite, con specifico riferimento alle considerazioni svolte dalla ricorrente sub a), b) e d), le osservazioni fatte nel corso dell'esame dell'ottavo motivo.
Quanto, poi, alla questione collegata all'omessa trascrizione della prima vendita ed a quella dell'annullamento di tale vendita mediante la conclusione della seconda vendita, si osserva, in primo luogo, che, come correttamente ha ritenuto la corte distrettuale, nei trasferimenti immobiliari la trascrizione ha solo funzione dichiarativa, poiché l'effetto traslativo della vendita si verifica con la manifestazione per iscritto del consenso delle parti. Comunque, come si è avuto modo di sottolineare più volte, nel caso in esame la questione della trascrizione non assume alcuna rilevanza.
Ugualmente vanno qui ribadite le considerazioni svolte in ordine al preteso annullamento della prima vendita, che sono già state diffusamente confutate esaminando il primo motivo del ricorso Palumbo.

Il rigetto dei ricorsi proposti dal Palumbo e dalla Ventura Antonia assorbe l'esame dei ricorsi incidentali dei Musicco, che sono stati proposti in via condizionata.
Ritiene il Collegio che ricorrano giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, decidendo sui ricorsi riuniti, rigetta i ricorsi proposti da Antonio Palumbo e da Antonia Ventura; dichiara assorbiti i ricorsi incidentali proposti da Pasquale, Antonio e Laura Musicco; compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio.





Commissario Maigret
00giovedì 27 novembre 2003 16:54
CASSAZIONE CIVILE 02/08/1990 n° 7749

I DIRITTI DI PRELAZIONE E DI RISCATTO PREVISTI DALL' ART. 732 COD. CIV., IN FAVORE DEL COEREDE POSTULANO CHE L' ALIENAZIONE POSTA IN ESSERE DA UN ALTRO COEREDE RIGUARDI LA QUOTA EREDITARIA (O PARTE DI ESSA) INTESA COME PORZIONE IDEALE DELL' UNIVERSUM IUS DEFUNCTI E VANNO PERTANTO ESCLUSI QUANDO ATTRAVERSO UN' ADEGUATA VALUTAZIONE DEGLI ELEMENTI CONCRETI DELLA FATTISPECIE (QUALI LA VOLONTA' DELLE PARTI, LO SCOPO PERSEGUITO, LA CONSISTENZA DEL PATRIMONIO EREDITARIO ED IL RAFFRONTO TRA ESSO E L' ENTITA' DELLE COSE VENDUTE) RISULTI CHE I CONTRAENTI NON HANNO INTESO SOSTITUIRE IL TERZO ALL' EREDE NELLA COMUNIONE EREDITARIA E CHE L' OGGETTO DEL CONTRATTO e' STATO CONSIDERATO COME COSA A Se' STANTE E NON COME QUOTA DEL PATRIMONIO EREDITARIO O PARAMETRO PER INDIVIDUARE LA QUOTA DI DETTO PATRIMONIO IN QUANTO TALE. IN TAL CASO, DATA LA MANCANZA NEL COEREDE DELLA TITOLARITA' ESCLUSIVA DEL DIRITTO DI PROPRIETA' SUL SINGOLO BENE, L' EFFICACIA DELLA ALIENAZIONE, CON EFFETTI PURAMENTE OBBLIGATORI, RESTA SUBORDINATA ALLA CONDIZIONE DELLA ASSEGNAZIONE, A SEGUITO DELLA DIVISIONE, DEL BENE (O DELLA SUA QUOTA PARTE) AL COEREDE MEDESIMO E QUINDI NON PUO' SORGERE IL PREGIUDIZIO (INTROMISSIONE DI ESTRANEI NELLA COMUNIONE EREDITARIA) CHE LA NORMA IN QUESTIONE VUOLE EVITARE.



Commissario Maigret
00giovedì 27 novembre 2003 16:58
RISPOSTA A QUESITI 29/04/1998 2081 APPLICABILITA' DELLA REGOLA DEL RETRATTO SUCCESSORIO
CNN Archivio Pratiche C.N.N. L.A.22.
RUOTOLO Antonio

APPLICABILITA' DELLA REGOLA DEL RETRATTO SUCCESSORIO

Quesito n. 2081

Si chiede se l'art. 732 c.c., che attribuisce ai coeredi il diritto
di prelazione, trovi applicazione nel caso di alienazione a terzi
della quota ereditaria da parte del successore a titolo universale
di uno dei coeredi.

La questione e' ampiamente dibattuta, e pertanto la risposta non
potra' che essere una breve ricognizione delle diverse posizioni che
si sono sin qui profilate.

Infatti, sebbene la dottrina piu' recente sia di contrario avviso
(IUDICA, Diritto dell'erede del coerede alla prelazione ereditaria,
in Riv. Dir. Civ., 1981, II,471 ss. e Ancora sulla trasmissibilita'
del diritto di prelazione ereditaria, in NGCC, 1993, I, 905 ss.;
SEBASTIANI, Puo' l'erede del coerede esercitare il diritto di
prelazione stabilito dall'art. 732 c.c.?, in Riv. Not., 1984, 581
ss.; MORELLI, La comunione e la divisione ereditaria, in
Giurisprudenza sistematica Bigiavi, Torino, 1986, 68 ss.; AZZARITI,
In tema di retratto successorio, in Giur. It., 1975, I, 111 ss.;
PADOVINI, Commento all'art. 732, in Commentario Cendon, Torino,
1991, 383; CIAVATTONE, Trasmissibilita' del diritto di prelazione,
in Giust. Civ., 1994, I, 1371 ss.), in giurisprudenza e' ormai
consolidato l'orientamento secondo il quale al successore a titolo
universale del coerede non si trasmettono ne' il jus proclationis
ne' il jus retractionis (Cass. 28 febbraio 1953, n. 486; Cass. 20
ottobre 1958, n. 3375; Cass. 5 febbraio 1974, n. 309; Cass. 12 marzo
1974, n. 674; Cass. 25 ottobre 1975, n. 3557; Cass. 7 settembre
1978, n. 4048; Cass. 13 agosto 1980, n. 4925; Cass. 4 novembre 1982,
n. 5795; Cass. 13 luglio 1983, n. 4777; Cass. 22 ottobre 1992, n.
11551; Cass. 14 aprile 1993, n. 4409; in dottrina: GIORDANO,
prelazione e retratto successorio, in Foro pad., 1948, I, 49 ss.;
CICU, Successioni per causa di morte, parte generale, in Trattato
Cicu - Messineo, Milano, 1961, 376; MESSINEO, Manuale di diritto
civile e commerciale, Milano, 1962, 583; GIANNATTASIO, Delle
successioni; III, in Commentario Utet, Torino, 1970, 77; VILLANI,
Morte di un coerede e sorte del diritto di prelazione ex art. 732
cod. civ., in Foro pad., 1973, I, 210; CIMATO, La nozione di
estraneo nel diritto successorio, in Dir. Giur., 1971, 412 ss.;
CASULLI, voce Divisione ereditaria, in Noviss. Dig. It., IV, Torino,
1957, 41; LOI, voce Retratto, in Enc. Dir., XL, Milano, 1989, 26
ss.).

Pertanto, non sarebbe soggetta a retratto l'alienazione di quota
posta in essere dal successore a titolo universale del coerede,
dovendosi ritenere soggetta a retratto la sola alienazione, a titolo
oneroso, che il coerede faccia della quota che ha acquistato quale
erede dal de cuius.

Tale conclusione si basa essenzialmente su tre argomenti.

Il primo, di carattere testuale, si fonda sul fatto che l'art. 732
c.c. sottopone alla regola del retratto l'alienazione posta in
essere non da qualsiasi compartecipe ma dal compartecipe coerede.

In senso contrario e' stato rilevato come tale affermazione si
risolva in una petizione di principio, anche perche' lo stesso
legislatore, all'art. 713 c.c., utilizza l'espressione coerede
facendo riferimento al partecipante alla comunione ereditaria, e non
gia' sempre ed esclusivamente al comunista che sia originario
successore del de cuius (IUDICA, Diritto dell'erede, cit., 470).

In secondo luogo, si afferma che l'art. 732 c.c. sarebbe norma di
carattere eccezionale (LOPS, Il retratto successorio, in Riv. Not.,
1978, 250 ss.; FORCHIELLI, Della divisione, in Commentario Scialoja
- Branca, Roma - Bologna, 1979, sub art. 732, 182 ss.): mentre
regola generale in tema di comunione e' la piena liberta' del
singolo comunista di disporre come crede della sua quota, l'art. 732
c.c. pone un vincolo all'autonomia del singolo partecipante che va
interpretato restrittivamente, e riferito ai soli coeredi originari.

Ma dalla dottrina contraria si fa rilevare che la qualificazione
dell'art. 732 c.c. come norma eccezionale e' quanto meno apodittica,
poiche' la possibilita' di estendere o meno la sua portata oltre i
coeredi originari non costituisce una premessa, quanto, semmai,
proprio l'oggetto del problema da risolvere.

La Cassazione adduce, infine, un terzo argomento, fondato sulla
ratio dell'art. 732 c.c., che e' quella di evitare l'intrusione di
un terzo estraneo nella comunione ereditaria. Solo la successione
mortis causa al titolare del patrimonio divenuto oggetto della
comunione collega il compartecipe con la struttura soggettiva
originaria della comunione, quale fu tenuta presente dal testatore,
la cui volonta' in questo senso andrebbe presunta.

In sostanza, la Cassazione presuppone una dicotomia fra "coerede" ed
"estraneo": il successore del coerede apparterrebbe a questa seconda
categoria e, pertanto, il retratto non potrebbe operare con riguardo
alla alienazione, da parte di questi, della quota ereditaria.

Anche questa affermazione, comunque, e' stata sottoposta a critiche
da parte della dottrina piu' recente, secondo la quale la dicotomia
presupposta dalla Cassazione sarebbe smentita dall'esistenza di
alcune categorie di soggetti (il rappresentante, il sostituto,
l'erede del coerede) che non possono essere considerati ne'
"estranei" ne' "terzi".

Secondo questa opinione, essendo il diritto di prelazione ex art.
732 c.c. un diritto potestativo avente carattere patrimoniale, e
quindi trasmissibile mortis causa, esso passa dal coerede al suo
successore che gli subentra in locum et jus e che, pertanto,
acquistando l'eredita', acquista anche il diritto potestativo di
prelazione. Allo stesso modo, il successore del coerede sara' invece
soggetto a retratto successorio nel caso in cui intenda alienare a
terzi "estranei" la quota ereditaria.

Quindi abbiamo, da un lato, una giurisprudenza, confortata da una
piu' antica dottrina, assolutamente concorde nel ritenere non
applicabile l'art. 732 c.c. al successore del coerede; e, dall'altro
lato, una dottrina piu' recente che, controbattendo punto per punto
alle argomentazioni della Cassazione, afferma invece la
applicabilita' di detta norma alla nostra fattispecie.



Commissario Maigret
00giovedì 27 novembre 2003 17:01
CASSAZIONE CIVILE 07/12/1999 n° 13704




MASSIMA:

Il diritto di retratto riconosciuto ai coeredi dalla norma di cui all'art. 732, comma primo, cod. civ. puo' attuarsi soltanto nel caso di alienazione (onerosa) della quota ereditaria, o di parte di essa, e non anche quando sia stato alienato un cespite determinato. Una tale limitazione, tuttavia, non ostacola l'esercizio del diritto in questione nel caso in cui gli elementi concreti che caratterizzano la fattispecie evidenzino, comunque, l'intento dei contraenti di sostituire nella comunione ereditaria il terzo estraneo, al coerede alienante, e di considerare pertanto, in vista di una tale finalita', il bene, o i beni, oggetto della traslazione, in funzione rappresentativa e come indice espressivo della quota o di parte di essa; cio' in quanto anche la traslazione di un solo bene finisce per individuare, nel caso in questione, la fattispecie presa in considerazione dall'art. 732 cit..

***

(Omissis).— SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. — Giacomo Pagliara, con atto del 20 aprile 1991, citò dinanzi al Tribunale di Brindisi il nipote ex frate, Vincenzo Pagliara: premesso che a seguito della morte della madre era insorta fra lui ed i fratelli, Michele ed Antonio Cosimo Pagliara, la comunione ereditaria sull’asse relitto dalla de cuius, comprensivo di un fabbricato sito in Santa Sabina di Carovigno; facendo presente che, nella persistente vigenza del regime comunistico, il coerede Michele Pagliara, dopo aver donato al figlio Vincenzo la propria quota dell’immobile cennato, agendo nella veste di procuratore dell’altro coerede Antonio Cosimo Pagliara, aveva trasferito al suo sunnominato discendente anche la quota del ridetto stabile di pertinenza del suo rappresentato, e ciò con vendita ritualmente consacrata in rogito notarile; denunciando, quindi, che tale contratto, nel quale era stato pattuito un prezzo di Lit. 7.000.000, era stato concluso senza dar modo ad esso istante di esercitare il diritto di prelazione spettantegli a mente dell’art. 732 c.c.; chiese sanzionarsi il suo diritto di riscattare dal compratore il cespite ereditario come sopra alienato a titolo oneroso, contestualmente offrendo in via reale al convenuto il prezzo da lui pagato per il relativo acquisto.
Il tribunale, con sentenza del 9 giugno 1993, data nella resistenza di Vincenzo Pagliara, accolse la pretesa attorea.
Sul gravame di Vincenzo Pagliara, la Corte d’appello di Lecce, con sentenza dell’1 ottobre 1996, resa anche questa nel contraddittorio delle parti, disatteso il gravame confermò la pronuncia del primo giudice. (Omissis).
Vincenzo Pagliara ricorre (Omissis). Giacomo Pagliara resiste al ricorso. (Omissis).

MOTIVI DELLA DECISIONE.—(Omissis) Giacomo Pagliara, sul dedotto presupposto, incontestato, di essere partecipe della comunione ereditaria di cui in narrativa, prospettando avere il coerede Michele Pagliara alienato ad un terzo, a titolo oneroso, per il tramite della vendita dianzi richiamata, una parte della sua quota senza aver previamente dato corso agli incombenti suscettibili di consentirgli di esercitare il diritto di prelazione spettantegli alla stregua dell’art. 732, comma 1, c.c., ha azionato una pretesa diretta a far valere, contro il compratore, lo ius retractationis accordatogli, nella situazione data, dalla considerata norma codicistica, e, quindi, a far sanzionare l’inefficacia nei suoi confronti del contratto contestato, come detto, intercorso fra Michele Pagliara, alienante, e Vincenzo Pagliara, acquirente.
La Corte d’appello di Lecce, con la sentenza impugnata, ha accolto la domanda in argomento: sulla premessa, pacifica, che la vendita in discussione formalmente ha avuto ad oggetto, non già la quota ereditaria dell’alienante o una parte di essa, ma una quota della comproprietà di un bene ereditario determinato, ha motivato la resa pronuncia osservando che il limite posto dall’art. 732 c.c. al diritto del coerede di disporre liberamente della quota deve ritenersi operante anche con riferimento ai contratti traslativi concernenti beni ereditari individui, o quote di essi, quando dalla « rappresentatività quantitativa » dei cespiti negoziati e/o dalla ricostruzione dell’intento contrattuale delle parti risulti la prova del fatto che le alienazioni relative sono state realizzate considerando i beni trasferiti non come cose a sé stanti, ma come entità rappresentative di una quota ereditaria, o di porzione di essa, e con all’intento di introdurre l’acquirente nella comunione; ha puntualizzato, quindi, ricorrere nella fattispecie le condizioni per poter ravvisare riducibile la vendita di cui trattasi nel paradigma della alienazione di quota, o di una porzione di quota, risultando dal materiale istruttorio in atti che il bene oggetto di trasferimento assorbe in sé la massima parte del valore dell’asse ereditario conteso (comprendente soltanto pochi altri cespiti di esiguo valore), e che la vendita di cui è causa ha costituito una componente di una più complessa operazione (realizzata anche per il tramite di una donazione) che è valsa a Vincenzo Pagliara l’acquisizione della quota maggioritaria dell’immobile conteso, e, quindi (avuto riguardo all’incidenza di questo sull’entità dell’asse ereditario comune) della maggior parte del patrimonio caduto in successione, e ciò in palese « violazione dei principi generalissimi sottesi alla disciplina della prelazione e del retratto ».

Vincenzo Pagliara, con il primo motivo di ricorso deduce evidenziarsi nella sentenza negli illustrati sensi resa dalla corte distrettuale « violazione, erronea e falsa applicazione dell’art. 732 c.c. ».
Il ricorrente, più specificamente, dopo aver fatto richiamo al principio per il quale « il diritto di prelazione e di riscatto nell’ipotesi di alienazione della quota ereditaria o di frazione di essa, implicante, per la sua efficacia reale, l’ingresso dell’estraneo nella comunione ereditaria..., non sussiste allorquando l’atto di alienazione abbia per oggetto la quota ideale di beni suddivisi determinati sempre che il Giudice del merito », sulla scorta delle riscontrate peculiarità fattuali del caso controverso, « non accerti che, malgrado la diversa forma dell’atto, si sia inteso ugualmente rendere partecipe l’acquirente di tutti i rapporti e di tutte le situazioni giuridiche che fanno capo alle comunioni ereditarie, dovendo trovare applicazione anche in tale ipotesi la disposizione dell’art. 732 c.c. sul retratto successorio », prospetta che, nella situazione in controversia, non ricorrerebbero i presupposti per ritenere che la vendita con la quale Michele Pagliara gli vendette il terzo di sua pertinenza del fabbricato in argomento abbia potuto integrare una alienazione di quota ereditaria, o di frazione di essa; denuncia, quindi, essere viziato il contrario avviso manifestato al riguardo dalla corte territoriale, per non aver questa considerato che il fabbricato di cui trattasi risulta essere stato solo uno dei diversi beni compresi nell’asse caduto nella successione in discorso, asse per il quale sarebbe in corso fra i coeredi un giudizio divisorio, promosso dal suo attore, Michele Pagliara, cui esso deducente non parteciperebbe; prosegue assumendo non avere la controparte fornito la prova dell’accampata discordanza fra l’apparenza della discussa alienazione — avente ad oggetto una quota della comproprietà di un bene determinato —e larelativa, allegata, realtà — afferenza della cessione ad una quota ereditaria —, e non essere una tale prova desumibile dal materiale istruttorio acquisito; sostiene, conclusivamente, che la presunzione iuris tantum, ai fini del retratto successorio, ... che le parti abbiano inteso compravendere quote... ereditarie, e non beni determinati, sussiste soltanto nell’ipotesi di cessione di quota... dell’unico cespite ereditario, e non pure qualora nell’asse siano compresi altri beni, rimasti estranei alla compravendita », e che « per poter esercitare il retratto successorio occorre che vi sia la volontà evidente del coerede alienante di far subentrare il terzo acquirente nella sua posizione », di guisa che detto retratto « non può essere validamente esercitato qualora, come nella fattispecie, il coerede », con negozio ad effetti necessariamente obbligatori, abbia trasferito al terzo « alcune quote di singoli beni facenti parte dell’asse ereditario ».

Vincenzo Pagliara, poi, con il secondo mezzo di ricorso, accampa essere la sentenza della corte salentina inficiata da un vizio di « omessa, contraddittoria, insufficiente motivazione », per aver detta corte incomprensibilmente affermato essere il fabbricato in controversia l’unico bene compreso nell’asse ereditario di cui trattasi, e risultare il relativo valore « tale da assorbire ogni altro bene » nel mancato espletamento di una consulenza intesa alla stima dei cespiti ereditari, e nella trascurata considerazione del dato rappresentato dalla pendenza fra i coeredi di un giudizio divisorio.
Le censure, che, siccome manifestamente connesse, devono essere esaminate unitariamente, sono destituite di fondamento.
È fuori discussione che il diritto di retratto riconosciuto ai coeredi dalla norma di cui all’art. 732, comma 1, c.c. può attuarsi soltanto nel caso di alienazione (onerosa) della quota ereditaria, o di parte di essa, e non anche quando sia stato alienato un cespite determinato.
Peraltro, da tale incontestata, ed incontestabile, premessa giuridica non discende inevitabilmente che allorché nell’alienazione non risultino coinvolti tutti i beni che compongono la quota ereditaria, per essere stata la traslazione limitata a certi beni determinati, con pretermissione di altri, il retratto successorio debba essere sempre escluso.
La limitazione cennata, invero, non ostacola l’esercizio del diritto conferito ai coeredi dalla disposizione codicistica dianzi citata nel caso in cui gli elementi concreti che caratterizzano la fattispecie evidenzino, comunque, l’intento dei contraenti di sostituire nella comunione ereditaria il terzo estraneo al coerede alienante, e di considerare, in vista di tale finalità , il bene, o i beni, oggetto della traslazione in funzione rappresentativa e come indice espressivo della quota, o di parte di questa: ciò che equivale a dire che, quando risulti l’intento cennato, perde ogni rilevanza giuridica la quantità e la misura dei beni trasferiti, di guisa che anche la traslazione di un solo bene (quando sia diretta al fine in discorso, ed il bene venga considerato come entità economica rappresentativa della quota, o di parte di essa) può essere ravvisata realizzante l’inconveniente che l’art. 732, comma 1, c.c. tende ad evitare e, perciò , passibile di retratto. (Omissis)

Ed è di tutta evidenza che l’accertamento del giudice del merito in ordine all’attitudine di un determinato negozio apparentemente strutturato come alienazione di uno o più beni specificamente indicati a risolversi in atto di disposizione riguardante la quota ereditaria, o una parte di essa, attenendo all’interpretazione della volontà effettiva dei contraenti, integra la risultante di un apprezzamento di fatto, funzionalmente riservato a detto giudice e destinato a sottrarsi al sindacato di legittimità demandato a questa Corte Suprema, se sufficientemente e non contraddittoriamente motivato.
La qui impugnata sentenza della Corte d’appello di Lecce, alla stregua dei così fissati parametri, si rivela senz’altro idonea a resistere alle critiche mossele con il ricorso delibato.
La corte territoriale, di fatti, nel rendere la pronuncia contestata, si è correttamente attenuta al principio di diritto dianzi richiamato, affermando che l’alienazione da parte di uno dei coeredi di uno, o di alcuni, dei cespiti compresi nell’asse ereditario e nella comunione insorta su questo, in tanto può essere passibile del retratto esercitabile dagli altri comunisti concorrenti nell’ereditarietà , in quanto, in considerazione delle peculiarità delle circostanze in cui viene realizzata, si appalesi sostanzialmente intesa a mettere in atto una disposizione della quota —o di una frazione di essa —di pertinenza dell’alienante, e a determinare, nella realtà fattuale, l’introduzione dell’acquirente nella comunione esistente fra gli eredi: è da escludere, pertanto, la riscontrabilità nella sentenza impugnata delle dedotte violazioni di legge.

La corte salentina, d’altronde, ha congruamente e adeguatamente motivato la decisione adottata, mettendo in risalto che la volontà delle parti del discusso negozio di realizzare la traslazione, non già di un cespite determinato considerato a sé stante, ma di detto cespite inteso come indice rappresentativo ed espressivo della quasi totalità della quota dell’alienante, è dimostrata nella fattispecie e dal dato (ravvisato provato sulla base di elementi di giudizio ricavati dalla documentazione fiscale esistente nell’incarto processuale) che il bene negoziato esauriva pressoché totalmente le ragioni ereditarie spettanti al ripetuto alienante (ridottissimo essendo il valore degli altri cespiti caduti nella successione) e, per di più , dalla circostanza che il ridetto atto dispositivo ha rappresentato una componente di una articolata operazione (concretatasi anche in una donazione fatta dall’alienante all’acquirente), in virtù della quale quest’ultimo ha finito per diventare il maggior quotista del bene comune rappresentante la parte più consistente dell’asse ereditario in controversia: non è , perciò , ravvisabile nella sentenza gravata neppure il lamentato vizio di motivazione.

3. In conclusione, il ricorso, nell’accertata infondatezza dei motivi addotti per suffragarlo, deve essere rigettato.

4. Le spese seguono la soccombenza, e, perciò , nella liquidazione di cui al dispositivo, vengono poste a carico del ricorrente. (Omissis)





Commissario Maigret
00giovedì 27 novembre 2003 17:02
La prelazione legale e i principi generali dell'ordinamento
Notariato Fasc. 02, Pag. 0195-0202 Comenale Pinto Marina

LA PRELAZIONE LEGALE E I PRINCIPI GENERALI DELL'ORDINAMENTO


di Marina Comenale Pinto

Nell'ambito dell'articolato microsistema delle prelazioni, un argomento che può dirsi sottratto alle diatribe giurisprudenziali e dottrinarie è la "summa divisio" tra prelazioni legali e prelazioni volontarie ed essa, anche se apparentemente può sembrare una classificazione di tipo meramente scolastico, in realtà proprio perché introduce elementi di certezza può fornire utili spunti interpretativi per le non poche questioni che in concreto caratterizzano tutta la materia in oggetto.



La distinzione tra prelazioni legali e prelazioni volontarie, come si evince dalla terminologia adoperata, trova la sua ragion d'essere nella fonte della prelazione, fonte rappresentata dalla legge per le prelazioni legali, frutto di una scelta di politica legislativa, e dalla autonomia privata per le prelazioni volontarie, frutto di una scelta di autoregolamentazione. La diversità della fonte esprime una diversità di fondamento e quindi di "giustificazione" dell'istituto nell'ambito dell'ordinamento giuridico considerato nella sua globalità, e pertanto di per sé offre criteri interpretativi di non poco conto all'operatore del diritto chiamato a confrontarsi con le problematiche della prelazione.

IL FONDAMENTO

Anche se può sembrare riduttivo, è da ritenere che l'elemento basilare della distinzione tra prelazioni legali e volontarie è costituito proprio dal fondamento. Ed invero sia in dottrina che in giurisprudenza sono stati enucleati altri tratti distintivi quali l'efficacia e le conseguenze dell'inadempimento; in ordine a essi però non vi è unanimità di opinioni, sia perché non vengono rintracciati con omogeneità in ogni fattispecie dell'uno o dell'altro tipo di prelazione, sia perché, viceversa, i medesimi caratteri vengono individuati in alcune ipotesi di prelazione legale e in alcune di prelazione volontaria. Pertanto, pur se sono di certo configurabili altri punti di riferimento per la soluzione di dubbi interpretativi, non possono però essere assimilati al fondamento nel delineato ruolo di "spartiacque".

PRELAZIONI LEGALI E DIMENSIONE ULTRAINDIVIDUALE DEGLI INTERESSI PROTETTI

La prelazione, come è stato osservato [1], è sempre riconducibile a una limitazione, a un affievolimento della libertà di disporre e quindi della libera circolazione dei beni, che, in quanto espressione di principi generali del nostro ordinamento, possono essere compresse solo in presenza di interessi ritenuti meritevoli di tutela, o piuttosto, di maggior tutela; e quello che potrebbe definirsi un "giudizio di meritevolezza", basato sul raffronto e contemperamento degli interessi in gioco, può di volta in volta sovvenire nell'affrontare i non pochi problemi operativi posti dalla tematica in oggetto ed in particolare dalle lacune normative, per cui una riflessione sul fondamento, come già detto, riveste non poca importanza [2].

Nell'ambito delle prelazioni legali, il panorama del fondamento con riferimento agli interessi "immediati" tutelati è senz'altro composito, in quanto ogni singola ipotesi risponde a una specifica scelta di politica legislativa, peraltro non sempre individuabile con chiarezza; può però rintracciarsi un carattere comune nella dimensione "ultraindividuale" degli interessi tutelati, nel senso che la tutela ha ad oggetto sempre l'interesse collettivo di un gruppo, che può essere più o meno esteso, all'utilizzo, in senso lato, di determinati beni.
Si è parlato di interesse "immediato" perché, a ben vedere, in tutte le prelazioni legali è comunque tutelato, sia pure mediatamente, l'interesse dell'intera collettività; ed invero anche quando la singola ipotesi di prelazione legale appare giustificata dall'attenzione del legislatore a una determinata categoria di soggetti, e quindi dall'interesse di un gruppo ristretto, la concreta scelta di politica legislativa risulta sempre riconducibile al fine ultimo di attuare un'equilibrata organizzazione dell'intera comunità sociale e quindi di tutelare l'interesse generale a una convivenza pacifica e produttiva.

A maggior chiarimento di quanto su detto non si ritiene superfluo qualche esempio.
Con riferimento alla prelazione ereditaria [3] disciplinata dall'art. 732 c. c., può parlarsi di interesse del gruppo dei coeredi a non veder alterata la compagine ereditaria soggettiva, anche nel presupposto che l'introduzione di elementi estranei, non legati da vincoli di affettività parentale, possa rendere più difficile il raggiungimento dell'accordo divisionale e quindi determinare un prolungamento temporale della comunione ereditaria; quest'ultimo è considerato con sfavore dall'ordinamento - come può rilevarsi, ad esempio, dalle prescrizioni di cui all'art. 713 c. c. - in quanto inducitivo di incertezza nella titolarità dei diritti e quindi nei rapporti giuridici. Dunque l'interesse immediato tutelato risulta essere quello del gruppo dei coeredi, ma l'interesse tutelato mediatamente, dal quale si ritiene che l'interprete e quindi l'operatore pratico del diritto non possa prescindere, è quello generale alla certezza dei rapporti giuridici.

Con riferimento alla prelazione in materia agraria [4], la finalità della relativa normativa è stata individuata nella formazione e nello sviluppo di imprese agricole a carattere familiare idonee ad integrare efficienti cellule produttive e a potenziare la redditività dei terreni; dunque l'interesse immediato tutelato risulta essere quello di determinate categorie di agricoltori, considerati soggetti economicamente deboli, ma la tutela di tale interesse a sua volta persegue l'interesse dell'intera comunità alla produzione e alla pace sociale attraverso una equilibrata distribuzione della ricchezza.
Con riferimento alla prelazione in materia di locazione urbana non abitativa [5], l'interesse immediato tutelato può considerarsi quello degli operatori economici a non vedere interrotta la continuità della conduzione aziendale dall'alienazione a terzi dell'immobile in cui si esercita l'attività; ma, a ben vedere, l'interesse all'integrità aziendale non è indifferente per la comunità e pertanto l'interesse mediatamente tutelato risulta essere ancora una volta quello generale all'efficienza produttiva.
Con riferimento alla prelazione accordata dall'art. 230- bis c.c. ai partecipi all'impresa familiare in caso di trasferimento dell'azienda [6], l'interesse immediatamente tutelato è quello dei collaboratori familiari, quali soggetti socialmente deboli, a non vedersi drasticamente e irrimediabilmente sottratta la propria dimensione lavorativa [7]; ed invero l'art. 2112 c. c., che in linea generale assicura al lavoratore dipendente la continuità del rapporto di lavoro nell'ipotesi di trasferimento dell'azienda, non trova applicazione nel caso di impresa familiare, come risulta testualmente confermato dal comma 5 dell'art. 230- bis c.c. laddove stabilisce che il diritto di partecipazione "può essere liquidato in danaro ... altresì in caso di alienazione dell'azienda" [8]. La scelta normativa della prelazione di cui all'art. 230- bis c. c. può dunque considerarsi espressione del contemperamento tra l'interesse su evidenziato del microgruppo dei partecipi, non assimilabili tout court ai lavoratori dipendenti ma altresì meritevoli di protezione quanto allo svolgimento della loro "attività di lavoro", e l'interesse dell'organismo produttivo azienda a una spedita commerciabilità e quindi al dinamismo economico. Con la norma in esame il contemperamento di tali interessi finisce per realizzarsi da un lato attraverso l'incentivazione dell'imprenditorialità su base familiare e dall'altro attraverso la salvaguardia dell'integrità aziendale favorita da un elemento di continuità nella sua gestione, quale può realizzarsi nel caso di acquisto da parte di uno dei partecipi; quindi, in ultima analisi, ancora una volta risulta perseguito l'interesse della collettività alla produzione socialmente equilibrata.

E con il favor legislativo verso l'azienda forse può spiegarsi la mancata attribuzione normativa al partecipe prelazionario, nel caso di inosservanza del vincolo di prelazione, del rimedio del riscatto, perché quest'ultimo rappresenterebbe un eccessivo intralcio alla speditezza del traffico giuridico con riferimento al bene azienda; in altri termini il legislatore avrebbe previsto il riscatto per rafforzare la prelazione nelle vicende traslative solo dei beni che possono definirsi "statici", quali gli immobili (cfr. ad esempio l'art. 8 della legge n. 590/1965, nel testo modificato dalla legge n. 817/1971 in materia di prelazione agraria, gli artt. 38 e 39 della legge n. 392/1978 in materia di prelazione locatizia, o ancora l'art.6 della legge n. 394/1991 sulle aree protette) e le quote ereditarie (cfr. l'art. 732 c.c.), mentre intenzionalmente non l'avrebbe accordata al prelazionario con riferimento a un bene, l'azienda, che può definirsi "dinamico" per la sua intrinseca destinazione al mondo produttivo [9].
A fondamento poi della normativa sulla prelazione in materia di beni culturali prevista dalla legge n. 1089/1939 [10] e della normativa sulla prelazione in materia di aree protette prevista dalla legge n. 394/1991 può rinvenirsi la tutela dell'interesse dell'intera collettività alla conservazione e al godimento di determinati beni.

Quanto sopra esposto induce a una riflessione. é sì vero che la prelazione legale presenta un'articolata varietà di ipotesi, anche alquanto differenti tra loro per vari aspetti, ma può essere ricondotta ad unità sotto il profilo del fondamento inteso come fine mediato, essendo possibile rintracciare, come si è accennato, un comune denominatore negli interessi protetti riferibili alla intera generalità dei consociati [11]. Ed anche per quanto riguarda il riscatto, se prima facie le scelte normative sembrano frutto di situazioni contingenti e disorganiche, in realtà possono ricondursi, come si è notato, a un criterio unitario quale la considerazione della staticità o dinamicità dei beni interessati, coerentemente ai principi ispiratori dell'intero sistema codicistico e in generale del nostro ordinamento giuridico; si pensi, ad esempio, al ricordato principio della libera circolazione dei beni, la quale risponde a un'esigenza di ordine pubblico [12], maggiormente pressante con riferimento a beni, come l'azienda, destinati all'esercizio di attività economiche, ed è favorita dalla certezza dei rapporti giuridici, espressione di altro principio generale, la cui attuazione è rallentata da meccanismi come quello del riscatto.

L'EFFICACIA NELLE PRELAZIONI: LE VARIE OPINIONI

Merita ora attenzione l'affermazione comune che le prelazioni legali e quelle volontarie si differenziano in relazione all'efficacia, che sarebbe reale per le prime e obbligatoria per le altre [13].
Attorno a tale affermazione si sviluppano non poche specificazioni ed obiezioni. Ad esempio si ritiene che una particolare tipologia di clausole di prelazione volontaria, quelle afferenti la circolazione delle quote di partecipazione societaria, ha quale naturale connotato l'efficacia reale che le verrebbe conferita dal sistema di pubblicità proprio degli atti costitutivi e modificativi di società i quali contengono dette clausole [14].
Si è anche sostenuto che comunque ogni ipotesi di prelazione convenzionale può avere efficacia reale se le parti lo vogliono, nel libero esercizio dell'autonomia privata. Tale volontà, poi, secondo alcuni può attuarsi col ricorso al mezzo della trascrizione, secondo altri con la non esclusione pattizia di effetti reali assistita da idonea pubblicità; quanto a quest'ultima opinione ci si riferisce in particolare ad autorevole dottrina laddove, dopo aver osservato che "specialmente la giurisprudenza, a contatto delle esigenze effettive, ha avvertito l'opportunità di dare ... al patto di prelazione ... l'efficacia cosiddetta reale", afferma che "occorre beninteso che le parti del patto non abbiano escluso l'effetto reale e occorre inoltre che il patto sia conosciuto dal terzo o, con la pubblicità legale, sia reso conoscibile dal terzo. Ma, sia chiaro, non è la pubblicità che determina l'efficacia reale del patto: l'efficacia reale deriva dal patto ed è soltanto subordinata alla pubblicità" [15].

E se è senz'altro da condividere l'affermazione secondo cui la pubblicità non è idonea a determinare l'efficacia reale, va però osservato, come si vedrà, da un lato che non è tanto quest'ultima a essere subordinata alla pubblicità quanto la sua opponibilità ai terzi, e dall'altro che, alla luce del nostro ordinamento, la scelta circa l'attribuzione della natura reale a una situazione giuridica risulta sempre rimessa a una valutazione del legislatore e non dei singoli, come è confermato dalla teoria della tipicità e del numero chiuso dei diritti reali; a riguardo si ricordano le parole di chi osserva che sotto "un profilo pratico e funzionale, sarebbe difficile ipotizzare un sistema che non sia quello della riserva, da parte dell'ordinamento, della individuazione dei tipi delle situazioni reali" [16].

LA DISTINZIONE TRA DIRITTI REALI E OBBLIGATORI

Come può intuirsi già dai brevi cenni appena fatti, la problematica dell'efficacia della prelazione coinvolge altre questioni di ordine generale quali la distinzione tra diritti reali e obbligatori, la pubblicità degli atti e, come si vedrà, la trasmissibilità dei diritti. Si ritiene pertanto non superfluo procedere a questo punto ad alcune precisazioni di tipo concettuale e terminologico, prodomiche alla questione in oggetto e alla luce delle quali, peraltro, talune divergenze di opinioni risultano attenuate in divergenze, o, meglio, differenze terminologiche, in quanto imputabili talora all'uso di medesimi termini in accezioni diverse.

In primo luogo sembra opportuno chiarire cosa debba intendersi per "realità" di un diritto in contrapposizione ad "obbligatorietà". La realità connota un rapporto con una cosa, concretantesi in una situazione giuridica nei confronti indeterminatamente di tutti gli altri soggetti di diritto e tendenzialmente duratura; l'obbligatorietà attiene, viceversa, a un rapporto giuridico con altro determinato centro di interessi e naturalmente a termine. Dunque può sinteticamente affermarsi che i descrittori della distinzione tra l'una e l'altra categoria di diritti sono individuabili nell'oggetto immediato, che nei diritti reali è una cosa, una res e nei diritti di obbligazione è il comportamento di altro specifico soggetto, nella dimensione temporale, duratura per i rapporti reali e limitata per i rapporti obbligatori, e nella intersoggettività, indeterminata per le situazioni a carattere reale e specifica per quelle a carattere obbligatorio.
Si cercherà ora di precisare cosa s'intende dire quando si afferma che nel nostro ordinamento i diritti reali sono tendenzialmente duraturi mentre i diritti di obbligazione sono naturalmente a termine, anche perché in tema di efficacia della prelazione la dimensione temporale si riscontra di frequente a base delle argomentazioni dottrinarie e giurisprudenziali a sostegno dell'una o dell'altra teoria.

Autorevole dottrina si è soffermata sull'elemento temporale ricordando in primo luogo come sia stato notato che il diritto reale "è per sua natura destinato a durare fino a che dura la cosa, ed ha la possibilità di essere perpetuo, nel senso che il suo esercizio non lo esaurisce, ma anzi lo conserva in vita, mentre il diritto di credito è destinato in breve tempo all'estinzione con l'esercizio"; ha poi sottolineato come si deve però tener presente "che la caratteristica della perpetuità del diritto reale va in realtà intesa come tendenza normale, ma non imprescindibile, come perpetuabilità del diritto. Occorre, infatti notare, da un lato, che i diritti reali di garanzia, in quanto accessori del credito, si estinguono con l'esercizio del credito; e, dall'altro lato, che anche i diritti c.d. assoluti presentano il carattere di una durata potenzialmente indefinita" [17].
Ma le categorie concettuali, e in particolare le classificazioni, non devono essere intese in senso rigido quali anguste e sbrigative caselle, per non dir prigioni, di nozioni, quanto piuttosto quali strumenti di ordinata comprensione di un sistema organico ricco di sfumature. E se queste ultime apparentemente sembrano inficiare i raggruppamenti, in realtà, a un'attenta lettura, ne costituiscono un elemento di riscontro; dunque le classificazioni possono essere utilizzate come mezzo per riportare proprio le sfumature all'unità senza snaturarle, in altri termini come chiavi di accesso al senso più profondo, all'"anima", di un ordinamento giuridico.

Orbene, considerando il punto di vista temporale, non sembra possa negarsi che dalla disciplina delle due tipologie di diritti e dal sistema giuridico nel suo complesso emerge quale connotato costante di durata quella che potrebbe definirsi una lunghezza ragionevole per i diritti reali e una brevità ragionevole per i diritti di obbligazione.
Un primo indicatore può trarsi dalla disciplina della prescrizione come causa estintiva dei diritti collegata proprio al trascorrere del tempo. Quanto ai diritti reali, infatti, si passa dalla imprescrittibilità del diritto di proprietà di cui al comma 3 dell'art. 948 c.c., a un termine di prescrizione di venti anni previsto per il diritto di superficie dall'ultimo comma dell'art. 954 c.c., per il diritto dell'enfiteuta dall'art. 970 c.c., per l'usufrutto dall'art. 1014 c.c., per l'uso e l'abitazione dal combinato disposto degli artt. 1026 e 1014 c.c., per le servitù prediali dal comma 1 dell'art.1073 c.c.; mentre per i diritti di credito, sempre che non siano indisponibili [18], si passa da un termine massimo di prescrizione di dieci anni di cui all'art. 2946 c.c., a quello di un anno previsto, ad esempio, dall'art. 2950 c.c. per il diritto del mediatore alla provvigione e dall'art. 2951 c.c. per i diritti derivanti dal contratto di spedizione e dal contratto di trasporto.
Tale indirizzo normativo risulta confermato da tutta la disciplina codicistica sulla durata dei diritti; infatti mentre per i diritti di obbligazione vige il principio che devono essere a durata limitata, non essendo ammessa nel nostro ordinamento un'obbligazione perpetua [19], per i diritti reali si passa dalla tendenziale perpetuità del diritto di proprietà [20], all'ammissibilità di una temporaneità convenzionale ma non inferiore a un limite minimo per l'enfiteusi [21], o ancora a limiti legali di durata massima, ma comunque ragionevolmente lunga, come per l'usufrutto, l'uso e l'abitazione [22]. Né deve trarre in inganno l'istituto della rendita perpetua disciplinato dagli artt. 1861 e ss. c.c., perché in tal caso la perpetuità, al di là della scelta terminologica del legislatore, è attenuata, per non dire giuridicamente vanificata, dal diritto di riscatto riconosciuto dall'art. 1865 c.c. al debitore "nonostante qualunque convenzione contraria".

Un riscontro di quella che si è definita ragionevole brevità voluta dall'ordinamento con riferimento ai rapporti obbligatori è poi rintracciabile sia nel diritto di recesso unilaterale riconosciuto alle parti dei rapporti di durata indeterminata, sia nei limiti massimi di durata imposti a tutta una serie di vincoli volontari.
Quanto al recesso unilaterale [23], esso può considerarsi un correttivo di carattere generale attuativo del principio, su ricordato, dell'inammissibilità di rapporti obbligatori perpetui ed è estraneo al campo dei diritti reali; ed invero ad esempio il proprietario di un fondo gravato da una servitù volontaria per la quale non sia stata stabilita consensualmente una durata non può certo ricorrere al recesso per interromperla, e così anche il proprietario di un suolo sul quale sia stato costituito un diritto di superficie non a tempo determinato.

Quanto ai limiti di durata dei vincoli volontari, si, pensi, in primo luogo, al divieto di alienazione stabilito per contratto, che non è valido se non è convenuto entro convenienti limiti di tempo, secondo quanto testualmente dispone l'art. 1379 c.c., norma di carattere generale richiamata [24] proprio in ordine a clausole di prelazione volontaria per valutarne la validità se prive di un termine finale; o, ancora, in materia di somministrazione, al termine massimo di cinque anni che ai sensi del primo comma dell'art. 1566 c.c. può avere la durata dell'obbligo di preferire proprio nell'unico caso di prelazione convenzionale espressamente previsto dal legislatore. E sempre a un termine massimo di cinque anni ricorre il legislatore al fine limitare la durata del divieto di divisione dell'eredità o di alcuni beni ereditari che può essere disposto dal testatore ai sensi del citato art. 713 c.c., o anche, per considerare tutt'altro istituto, per limitare la durata del divieto convenzionale di concorrenza nel caso di alienazione dell'azienda [25]; un tempo di durata più ampio, ma comunque normativamente predeterminato, le parti possono poi prevedere, ai sensi del comma 3 dell'art. 965 c.c., per il divieto convenzionale di disporre per atto tra vivi, in tutto o in parte, del diritto dell'enfiteuta.

LA PUBBLICITÀ DEGLI ATTI

E proprio dalla disciplina codicistica dei vincoli al potere di disposizione su richiamati possono trarsi spunti argomentali per contestare la ricostruzione della trascrizione, ed in genere di un regime di pubblicità, come mezzo per attribuire efficacia reale a una situazione giuridica, ricostruzione rintracciabile sia nella tesi che riconosce all'eventuale trascrizione voluta dalle parti, ancorché non prevista dal legislatore, il "magico" potere di assicurare efficacia reale alla prelazione convenzionale, sia in quella che fa dipendere l'efficacia reale della prelazione cosiddetta societaria dal suo inserimento in un atto soggetto a pubblicità.

Si pensi ad esempio al richiamato divieto convenzionale di alienazione, che "ha effetto solo tra le parti" e dunque ha carattere obbligatorio, per l'espressa previsione del citato art. 1379 c.c., norma che, considerando anche il ricorso al modo verbale indicativo ("ha"), deve ritenersi inderogabile; né sembra che a qualcuno sia venuto in mente di sostenere che una eventuale trascrizione del relativo patto o comunque del contratto che lo contenga possa, viceversa, attribuirgli efficacia reale.
Se si considera poi il divieto convenzionale di disposizione del diritto dell'enfiteuta, il comma 4 del citato art. 965 c.c. prevede quale conseguenza della sua violazione da parte dell'enfiteuta non l'inefficacia dell'atto dispositivo nei confronti del terzo acquirente bensì una responsabilità patrimoniale del cedente; pertanto tale divieto, pur se contenuto in un atto, quello costitutivo del diritto di enfiteusi, senza dubbio soggetto a trascrizione (cfr. il n. 2 dell'art. 2643 c.c.), non per questo condivide la realità del diritto medesimo e il regime di opponibilità ai terzi. La disciplina contenuta nel citato art. 965 c.c. può essere considerata un'esplicazione normativa della esposta distinzione tra diritti reali e diritti di obbligazione, che non vanno confusi tra loro anche se in concreto soggettivamente collegati; ed infatti una cosa è il diritto dell'enfiteuta che ha come oggetto immediato il fondo enfiteutico e quindi una res a cui è diretto il potere del soggetto attivo (appunto l'enfiteuta), e altra cosa è il detto vincolo di disposizione che ha come oggetto immediato il comportamento dell'enfiteuta e quindi del soggetto passivo del vincolo medesimo, comportamento a cui è diretto il potere del soggetto attivo (il concedente). Né l'eventuale coincidenza dei soggetti deve ingenerare confusione, per cui la circostanza che l'enfiteuta sia contemporaneamente il soggetto attivo del diritto reale di enfiteusi ed altresì il soggetto passivo del divieto di disporre di tale diritto non vale ad operare una commistione concettuale e ad alterare la natura obbligatoria del vincolo di disposizione; ogni confusione peraltro nel caso dell'enfiteusi risulta preclusa proprio dalla disciplina, inderogabile secondo l'espresso disposto del comma 2 dell'art. 957 c.c., dettata dall'art. 965 c.c. e in particolare dall'ultimo comma.


Commissario Maigret
00giovedì 27 novembre 2003 17:02
(segue)
Non sembra opportuno dilungarsi su altri vincoli volontari al potere di disposizione, in quanto gli esempi forniti dagli articoli 1379 e 965 c.c. possono essere sufficienti a esplicare il concetto giuridico su accennato secondo cui il regime di pubblicità nel nostro ordinamento è un mezzo per far valere la realità, ossia per renderla opponibile ai terzi, non per attribuirla [26].
D'altro canto di tale affermazione nessuno ha mai dubitato con riferimento a quello che si potrebbe definire il diritto reale per eccellenza, la proprietà. Ed invero, per ricorrere a un esempio, si potrebbe forse sostenere che se Tizio compra la piena proprietà di un bene immobile da Caio il diritto acquistato è reale o obbligatorio a seconda che il contratto di compravendita venga trascritto o meno? La proprietà è in ogni caso un diritto reale e la trascrizione attiene a un onere [27] per far valere tale realità; la trascrizione determinerà l'opponibilità da parte di Tizio del diritto acquistato anche nei confronti dei terzi e in particolare di altri eventuali aventi causa da Caio che non abbiano trascritto prima il loro titolo.
Viceversa la trascrizione dei contratti di locazione ultranovennale di beni immobili prevista dal n. 8 dell'art. 2643 c.c. non si può ritenere valga a modificare la natura della situazione giuridica che ne è l'oggetto. In altri termini il diritto del conduttore, che per l'opinione prevalente [28] è un diritto personale, non muta la sua natura a seconda che scaturisca o meno da un contratto di durata superiore a nove anni e quindi a seconda che scaturisca da un contratto soggetto o meno a trascrizione [29]; quest'ultima, ancora una volta, non incide sulla natura del diritto bensì sul regime della sua opponibilità ai terzi.

RAPPORTO TRA PUBBLICITÀ E OPPONIBILITÀ

In proposito merita un chiarimento anche il rapporto tra i concetti di pubblicità e di opponibilità [30] che non vanno tra loro confusi, nel senso che se sono senza dubbio collegati non sono però coincidenti. Come si evince anche dall'esempio testé fatto in ordine all'acquisto del diritto di proprietà, la pubblicità può considerarsi un mezzo di attuazione della opponibilità piena nei confronti dei terzi; ed invero una volta attuata la forma di pubblicità predisposta dall'ordinamento, una determinata vicenda giuridica diventa opponibile nei confronti di tutti i terzi, anche di quelli titolari di situazioni giuridiche in conflitto o comunque incompatibili. La trascrizione delle vicende attinenti ai diritti reali le rende infatti opponibili ai terzi, ancorché vantino diritti incompatibili sulla medesima cosa e sempre che non siano stati più tempestivi nel ricorso alla pubblicità.

In conclusione, va ribadito che la trascrizione non è uno strumento per attribuire realità, ma è piuttosto uno strumento affinchè abbia completa attuazione l'efficacia erga omnes della realità; la trascrizione, cioè, non determina la realità ma ne consente la piena opponibilità. Come è stato autorevolmente osservato "l'attuazione della pubblicità non determina il cambiamento della natura della situazione che da personale non diviene reale: essa costituisce invece un mero criterio che l'ordinamento ha prescelto per risolvere possibili conflitti tra più soggetti aventi titoli su un medesimo bene... Occorre ... considerare sempre la disciplina sostanziale della opponibilità stabilita dalla legge per la situazione ipotizzata: ove non sia prevista l'efficacia verso i terzi, la situazione non diviene opponibile sol perché sia stata trascritta" [31].

LA TRASMISSIBILITÀ DEI DIRITTI

Nell'ambito di quella che si è definita la dimensione temporale dei diritti, non sembra poi superfluo precisare che essa non è interdipendente con la trasmissibilità dei diritti medesimi; tale chiarimento è reso opportuno dalla considerazione, svolta in tema di efficacia della prelazione volontaria, che le situazioni soggettive derivanti da una convenzione o patto di prelazione sono destinate a durare nel tempo e non necessitano dell'apposizione di un termine in quanto devono ritenersi trasmissibili e viceversa che sono trasmissibili in quanto tendenzialmente durature. E talvolta si è andati oltre argomentando, sia pure non esplicitamente, dalla trasmissibilità la durevolezza e dalla durevolezza la realità; si è in altri termini sostenuto che non può dubitarsi che le dette situazioni soggettive, e in particolare quella passiva, sono trasmissibili a causa di morte, per cui esse devono ritenersi durature e conseguentemente non incompatibili ontologicamente con la realità [32].

Ma la temporaneità di un diritto non va confusa con la sua eventuale inscindibilità da un determinato soggetto giuridico, nel senso che non ne pregiudica la trasmissibilità da parte del titolare ad altro soggetto, ovviamente nei limiti di durata del diritto medesimo. In altri termini ciò che condiziona la trasmissibilità o meno di un diritto non è la dimensione temporale, né la natura reale o obbligatoria dello stesso, quanto piuttosto il grado di inerenza alla persona del titolare. E tale inerenza, che è piena per i cosiddetti diritti della personalità, quali il diritto al nome, all'onore, alla libertà, all'integrità personale che sono intrasmissibili, per quanto riguarda i diritti patrimoniali è di certo più pregnante e frequente per i diritti di credito, ma non è incompatibile con i diritti reali; quanto ai primi si pensi alle prestazioni di fare infungibili, quanto ai secondi al divieto legale di cessione del diritto di uso e di quello di abitazione [33]. E se la connessione di un diritto a un determinato soggetto, della quale può considerarsi conseguenza giuridica la intrasmissibilità, negli esempi su menzionati è frutto di una valutazione dell'ordinamento può, entro certi limiti, essere il risultato di una scelta di autoregolamentazione delle parti; si pensi, proprio nell'ambito dei diritti reali, al divieto convenzionale di cessione del diritto di usufrutto consentito espressamente dal comma 1 dell'art. 980 c.c., o al ricordato divieto convenzionale di disporre del diritto dell'enfiteuta per atto tra vivi, consentito, come detto, dal comma 3 dell'art. 965 c.c., sia pure "per un tempo non maggiore di venti anni" [34].

Chiarito che la trasmissibilità o meno di un diritto non dipende dalla sua durata, né tanto meno dalla sua natura reale o obbligatoria, non può considerarsi argomento rafforzativo della tesi della natura reale delle prelazioni legali la trasmissibilità del vincolo agli aventi causa del soggetto passivo. Anzi la trasmissibilità della posizione passiva può costituire un argomento contrario se si considera che, come è stato osservato, la "successione nella posizione passiva è impossibile rispetto a quei rapporti, in cui la posizione passiva è tenuta non da un soggetto determinato, ma dalla generalità dei soggetti; cioè rispetto ai rapporti assoluti e specialmente ai rapporti reali" [35], mentre per i diritti di obbligazione, pur essendo, come detto, naturalmente a termine, la trasmissibilità non è incompatibile con la posizione passiva, sempre che quest'ultima non rivesta il carattere della personalità.

RISCONTRO DEI DATI QUALIFICANTI DELLA REALTÀ NELLA PRELAZIONE: ESITO NEGATIVO

Individuati i dati qualificanti della realità e trattate, sia pur sommariamente, alcune questioni inerenti agli stessi, si cercherà ora di verificare la ricorrenza di essi nella prelazione legale e in quella volontaria, procedendo al loro riscontro uno per uno.
Se si considera l'oggetto immediato del diritto del prelazionante, esso non è una res , come nei diritti reali, bensì il comportamento di altro determinato soggetto, ossia di colui che è obbligato (o per legge come nella prelazione legale, o per scelta pattizia come nella prelazione volontaria) a preferire il prelazionante stesso; ed invero tale diritto non si concreta nel potere su una cosa ma nella pretesa all'adempimento di una prestazione di fare. In altri termini, non sembra possa negarsi che oggetto immediato del diritto del prelazionario a essere preferito è il comportamento del titolare di un certo bene, non il bene stesso. Né bisogna confondere il diritto a essere preferiti, in occasione di una vicenda circolatoria, con il diritto di riscatto, che presuppone la vicenda già avvenuta e, come si è accennato, non è riferibile a tutti le ipotesi di prelazione, nemmeno legale.

Per quanto riguarda poi la dimensione temporale, con riferimento alla prelazione e in particolare alla prelazione legale può parlarsi di lunghezza ragionevole propria dei diritti reali o di brevità ragionevole propria dei diritti obbligatori? Quest'aspetto presenta senz'altro una maggiore complessità, ma può comunque rilevarsi che il legislatore non sembra essersi mai preoccupato di far riferimento a una durata tendenzialmente lunga, ad esempio disponendo un termine di prescrizione superiore a quello ordinario di dieci anni previsto dall'art. 2946 c.c., mentre, come si è prima ricordato, lo ha fatto per tutti i diritti reali limitati di godimento. Anzi nelle ipotesi di prelazione legale non a favore dello Stato o di altri enti pubblici può individuarsi un indiretto e costante limite di durata massima nel persistere dei requisiti oggettivi e/o soggettivi che hanno dato luogo all'obbligazione di preferire.
Va quindi considerata quella che si è chiamata intersoggettività e che si è visto essere assoluta nei diritti reali e relativa nei diritti di obbligazione. Orbene la intersoggettività risulta essere specifica non solo nella prelazione volontaria ma anche in quella legale, in quanto anche quest'ultima, in realtà, intercorre tra soggetti determinati, sia pure alcuni dei quali qualificati, come lo Stato nella prelazione artistica o l'ente parco nella prelazione relativa alle aree protette. Ed invero scorrendo, ancorché rapidamente, le diverse ipotesi di prelazione legale, può rilevarsi come il diritto del prelazionario è diretto sempre verso uno specifico soggetto passivo, colui che è obbligato a preferire, e non indistintamente verso tutti gli altri soggetti di diritto. Volendo fare solo alcuni esempi, nella prelazione ereditaria soggetto passivo è inequivocabilmente il coerede alienante e soggetti attivi sono gli altri coeredi; nelle ipotesi tipiche di prelazione agraria soggetto passivo è il proprietario di un terreno alienando con determinate caratteristiche oggettive e soggetti attivi sono alcuni agricoltori che abbiano determinati requisiti; nella prelazione in materia di locazione urbana non abitativa soggetto passivo è il locatore che intenda vendere l'immobile locato e soggetto attivo è il conduttore; nella ipotesi di prelazione in materia di impresa familiare, soggetto passivo è l'imprenditore che intenda trasferire l'azienda e soggetti attivi sono esclusivamente i partecipi.

Ed invero proprio da alcune ipotesi di prelazione legale assistite dal rimedio del riscatto può trarsi la conferma che la prelazione in sé e per sé integra un mero rapporto obbligatorio. Si pensi alla prelazione agraria; come si è detto l'oggetto immediato del diritto di prelazione non è il terreno agricolo alienando bensì il comportamento del suo proprietario e il diritto medesimo incontra un limite di durata nel permanere della situazione che ne ha determinato l'insorgere, in quanto un mutamento dei soggetti e/o delle caratteristiche del terreno, quale la sua destinazione urbanistica, può comportarne una repentina cessazione. Con riferimento a tale fattispecie di prelazione legale non sono dunque riscontrabili quelli che sono stati su individuati come i caratteri della realità, né la relativa normativa prevede un sistema di pubblicità circa l'esistenza del vincolo in modo da consentire l'informazione dei terzi e, quindi, determinarne l'opponibilità.
Si conviene pertanto con chi sostiene che la realità attiene non alla prelazione, la quale è sempre, anche nelle prelazioni legali, un rapporto obbligatorio, ossia intercorrente tra soggetti determinati, ma attiene esclusivamente al riscatto, ossia a uno dei rimedi, peraltro di carattere eccezionale, alla violazione dell'obbligo di preferire.


NOTE:

(1) Cfr. ad esempio G. Tamburrino, I vincoli unilaterali nella formazione progressiva del contratto, Milano, 1991, 104; F. Santoro Passarelli, Struttura e funzione della prelazione legale, in Riv. trim. dir. proc. civ, 1981, 698; Mario D'Orazi Flavoni, Scritti giuridici di Mario D'Orazi Flavoni, I, Roma, 1965, 137.
(2) Sottolinea l'importanza di individuare il fondamento di un istituto giuridico al fine della soluzione di problemi interpretativi F. D. Busnelli, La prelazione nell'impresa familiare, in Riv. Not., 1981, 817.
(3) In dottrina si sono occupati del fondamento della prelazione ereditaria ad es. M. D'Orazi Flavoni, Scritti giuridici di Mario D'Orazi Flavoni, cit., I, 280 e ss.; G. Tamburrino, I vincoli unilaterali nella formazione progressiva del contratto, cit., 135 e ss.
(4) Sul fondamento della prelazione in materia agraria cfr. in dottrina G. Tamburrino, I vincoli unilaterali nella formazione progressiva del contratto, cit., 147; in giurisprudenza Cass. 21 ottobre 1994 n. 8659, Cass.18 novembre 1994 n. 9761, Cass. 19 novembre 1994 n. 9806, Cass.10 dicembre 1994 n. 10586, Cass. 27 marzo 1995 n. 3598, Cass. 29 maggio 1995 n. 10272, Cass. 8 agosto 1995 n. 8701, Cass. 29 settembre 1995 n. 10272, Cass. 18 aprile 1996 n. 3661, Cass. 13 febbraio 1998 n. 1558, Cass. 28 novembre 1998 n. 12092.
(5) Sul fondamento della prelazione in materia di locazione urbana non abitativa cfr. in dottrina G. Tamburrino, I vincoli unilaterali nella formazione progressiva del contratto, cit., 153 e s.; in giurisprudenza Cass. 21 ottobre 1994 n. 8659, Cass. 30 maggio 1996 n. 5009, Cass. 10 luglio 1997 n. 6271.
(6) L'art. 230-bis c. c. attribuisce ai familiari collaboratori il diritto di prelazione sull'azienda anche nel caso di divisione ereditaria della stessa, ma secondo l'opinione prevalente non può considerarsi un diritto di prelazione in senso proprio. Contra F. D. Busnelli, La prelazione nell'impresa familiare, cit., 819, secondo il quale "La prelazione di cui parla l'art.230-bis, comma 5, deve intendersi a tutti gli effetti - e, quindi, senza ragione di distinguere tra il caso di trasferimento dell'azienda e il caso di divisione ereditaria ... - come un diritto di prelazione in senso tecnico".
(7) Sul fondamento della prelazione spettante ai partecipi all'impresa familiare in caso di trasferimento dell'azienda cfr. in dottrina G. Tamburrino, I vincoli unilaterali nella formazione progressiva del contratto, cit., 141; G. G. Pettarin, Aspetti civilistici dell'impresa familiare, in Teoria e Pratica del Diritto, L'impresa familiare, Milano, 1990, 73; M. Ghidini, L'impresa familiare, Padova, 1977, 85 nt. 66 e 88, F. D. Busnelli, La prelazione nell'impresa familiare, cit., 811 e ss.
(8) Sulla non applicabilità dell'art. 2112 c.c. ai rapporti di collaborazione familiare cfr. G. G. Pettarin, Aspetti civilistici dell'impresa familiare, cit., 79.
(9) Sottolinea il favor riservato all'azienda dal nostro legislatore la sentenza della Corte Costituzionale 4-13 luglio 1994, n. 294, ancorché con riferimento a una problematica diversa da quella trattata nel testo.
(10) Sul fondamento di tale ipotesi di prelazione legale cfr. in dottrina M. D'Orazi Flavoni, Scritti giuridici di Mario D'Orazi Flavoni, I, cit., 258; G. Tamburrino, I vincoli unilaterali nella formazione progressiva del contratto, cit., 163; in giurisprudenza Cass. 6 maggio 1994 n. 4386, S.U.
(11) Sul problema in generale del rapporto tra fine immediato e fine mediato di un istituto giuridico cfr. ad esempio in dottrina S. Pugliatti, La trascrizione, in Tratt. Cicu e Messineo, Milano, 1957, t.1, 230 e s. In tema di prelazione distingue tra fondamento specifico e fondamento generico, il quale ultimo accomuna le varie figure di prelazione, F. D. Busnelli, La prelazione nell'impresa familiare, cit., 814 e ss.. Da ultimo ha invece ribadito che "la prelazione legale non costituisce un istituto unitario" A. Corsi, Le prelazioni legali , in questa Rivista, 1, 1998, 73, il quale riporta le parole di E. Cesaro, La prelazione in generale, in AA.VV., Le Prelazioni, p.16, laddove quest'ultimo autore afferma che la prelazione legale non ha "un'omogeneità interna costante, tale da dare certezza al processo di unificazione di fattispecie diverse poiché ... essa raccoglie fattispecie molte delle quali si distinguono dalle altre non solo per caratteri specifici, ma anche per differenza di struttura e di funzione".
(12) Di "esigenza di ordine pubblico che è alla base del principio della libera disposizione e circolazione dei beni" parla F. Santoro Passarelli, Struttura e funzione della prelazione convenzionale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1981, 698.
(13) In tal senso, ad esempio, cfr. in dottrina F. Galgano, Impresa familiare, in Quaderni della Rivista del notariato, Il regime patrimoniale della famiglia a dieci anni dalla riforma, Milano, 1988, 115, che afferma che "c'è un principio universale, che emerge da un'imponente serie di dati normativi, che la prelazione legale è sempre una prelazione reale, mentre ha carattere puramente obbligatorio la prelazione consensuale.", F. D. Busnelli, La prelazione nell'impresa familiare, cit., 819, che parla di prelazione "reale" con riferimento alla prelazione legale; in giurisprudenza, da ultimo, Cass. 1 luglio 1997, n. 5895, S. U.
(14) Cfr. ad esempio da ultimo Cass. 29 agosto 1998 n. 8645, secondo cui la prelazione "al pari di qualsiasi altra pattuizione riguardante posizioni soggettive individuali dei soci che venga iscritta nello statuto della società, ha efficacia reale, sicché i suoi effetti sono opponibili anche al terzo acquirente".
(15) Così F. Santoro Passarelli, Struttura e funzione della prelazione convenzionale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1981, p.701.
(16) Così M. Comporti, Diritti reali in generale, in Tratt. Cicu e Messineo, Milano, 1980, 218, il quale chiarisce che "la problematica del numerus clausus è diversa ... da quella della tipicità, attenendo la prima alla esclusività della fonte, e cioè all'ordinamento che limita l'autonomia del soggetto, e la seconda alla determinazione del contenuto, cioè del 'tipo' della situazione reale che il soggetto può prescegliere" (p. 216), e ritiene auspicabile "il mantenimento dei principi del numerus clausus e della tipicità dei diritti reali, in quanto attraverso essi si perviene alla tutela del soggetto più debole nei confronti del soggetto più forte, che potrebbe servirsi dello strumento contrattuale per imporre, a danno di altri soggetti, particolari modi di godimento dei beni realizzanti atipiche posizioni di vantaggio" (p. 218). Nel senso che "i diritti reali e gli oneri reali sono un numerus clausus, o, comunque, che soltanto la legge può stabilire quali diritti o quali atti (domande giudiziali ecc.), se trascritti, siano efficaci rispetto ai terzi" cfr. G. Gorla, Precedenti giudiziali sulla trasmissibilità e sul termine dell'obbligazione pattizia di prelazione e su alcune questioni connesse, in Il foro italiano, 1966, 63; sulla riconducibilità dei diritti reali ad un numero chiuso di figure tipiche cfr. anche L. Bigliazzi Geri, U. Breccia, D. Busnelli, U. Natoli, Istituzioni di diritto civile I, Genova, 1978, 309 e ss.. Parla di tipicità dei diritti reali lo stesso F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, cit., 82.
(17) Così M. Comporti, Diritti reali in generale, in Tratt. Cicu e Messineo, cit., 106 e s.. La stessa dottrina ha quindi rilevato come "la prima notazione può essere giustificata con la peculiarità dei diritti di garanzia e cioè con la loro strumentalità al diritto di credito, e che la seconda notazione non verrebbe a confondere, anche sotto il profilo della durata, i diritti assoluti con i diritti reali, poiché i diritti reali, anche per quanto concerne la loro perpetuabilità, hanno come punto di riferimento la cosa. Se però si considera che nei diritti di credito possono darsi ipotesi di rapporti che non si esauriscono con il loro esercizio, come ad esempio le obbligazioni di non fare, e che, nei diritti reali, l'usufrutto, l'uso e l'abitazione non possono eccedere la durata stabilita dall'art. 979 c.c., si comprende che la diversità basata sulla durata delle categorie dei diritti non può servire a costituire un sicuro elemento differenziale, ma soltanto a sottolineare una caratteristica normale e potenziale, ma non tipica ed esclusiva dei diritti reali.".
(18) Dispone infatti espressamente il comma 2 dell'art. 2934 c.c. che "non sono soggetti alla prescrizione i diritti indisponibili". Sui diritti indisponibili cfr. ad esempio in dottrina A. Torrente e P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, 1978, 74; A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, Padova, 1975, 124.
(19) Sul punto cfr. per tutti Barbero, Sistema istituzionale del diritto privato italiano, I, Torino, 1949, 401.
(20) Per la definizione del diritto di proprietà come "tendenzialmente perpetuo" cfr. anche Barbero, Sistema istituzionale del diritto privato italiano, cit., I, 400.
(21) L'art. 958 c.c., comma 2, dispone che l'enfiteusi temporanea non può essere costituita per una durata inferiore ai venti anni."
(22) L'art. 979 c.c. dispone che "la durata dell'usufrutto non può eccedere la vita dell'usufruttuario.
L'usufrutto costituito a favore di una persona giuridica non può durare più di trent'anni", e l'art. 1026 c.c. dispone che "le disposizioni relative all'usufrutto si applicano, in quanto compatibili, all'uso e all'abitazione".
(23) Sul diritto di recesso in generale cfr. E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, Milano, 1955, 132 e ss.; M. Franzoni, Degli effetti del contratto, I, Efficacia del contratto e recesso unilaterale, in Commentario Schlesinger, Milano, 1998, 307 e ss.
(24) Cfr. ad esempio Cass. n. 5213 /1983.
(25) Cfr. l'art. 2557 c.c., commi 2 e 3.
(26) Cfr. sul punto anche L. Ferri, Trascrizione immobiliare, in Comm. Scialoja e Branca, Bologna, 1977, 154 e ss.
(27) Nel senso che la pubblicità è un onere cfr. ad esempio L. Ferri, Trascrizione immobiliare, in Comm. Scialoja e Branca, Bologna, 1977, 152, e S. Pugliatti, La trascrizione, in Tratt. Cicu Messineo, Milano, 1957, 304.
(28) Cfr. ad esempio A. Tabet, La locazione-conduzione, Milano, 1972, 97 e ss., A. Torrente e P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, cit., 299 e s.
(29) Per la tesi secondo la quale, invece, "tutti i diritti contemplati nell'art. 2643 c.c. sembrano, nell'attuale momento dell'esperienza giuridica, di natura reale" cfr. M. Comporti, Diritti reali in generale, in Tratt. Cicu e Messineo, 102, nt.119
(30) L'esigenza di un tale chiarimento è sottolineata in dottrina laddove si osserva che in "realtà sembra necessario approfondire lo studio del rapporto fra il tema della opponibilità e quello della pubblicità: alla omissione di tale studio da parte della dottrina sono forse dovute le gravi incertezze che ancora caratterizzano la specifica materia." M. Comporti, Diritti reali in generale, cit., 97.
(31) Così M. Comporti, Diritti reali in generale, cit., 98 e ss., il quale sottolinea anche che " Del resto fino al momento in cui non sorga un conflitto, il diritto reale conserva la sua natura e le sue prerogative anche senza la prevista forma di pubblicità: nel senso che, ad esempio, il diritto reale non trascritto su immobile è pienamente efficace ed opponibile fino a che altri aventi causa non abbiano trascritto il loro titolo di acquisto: ed è perfettamente opponibile a tutti i successivi aventi diritto sull'immobile che non abbiano trascritto l'acquisto del loro diritto."
(32) Cfr. ad esempio Cass. 2 febbraio 1937 n. 291; in generale sui rapporti tra trasmissibilità, durata e natura della prelazione pattizia cfr. G. Gorla, Precedenti giudiziali sulla trasmissibilità e sul termine dell'obbligazione pattizia di prelazione e su alcune questioni connesse, in Foro It., 1966, cit.
(33) Dispone testualmente l'art. 1024 c.c. che i "diritti di uso e di abitazione non si possono cedere o dare in locazione".
(34) Sul problema in generale della trasmissibilità dei diritti cfr. ad esempio Grosso e Burdese, Le successioni, parte generale, Torino, 1977, 14 e ss. e Capozzi, Successioni e donazioni, Milano, 1983, I, 22 e ss.
(35) Così Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, 91.





Antosenior
00giovedì 27 novembre 2003 17:30
Potresti fare un breve riassuntino, massimo cinque righe?
Sempre grato (mi fu quest'ermo colle)![SM=g27817]
Tuo Cico e Scanner (con Aidi)[SM=g27825]
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